mercoledì 28 agosto 2013

Il paesaggio di montagna di fine agosto

Trascorro una bella giornata nel Parco Nazionale dello Stelvio, quando ad un certo punto mi soffermo a contemplare la bellezza del paesaggio che si estende davanti ai miei occhi: in primo piano un ciuffo di Silene acaule, sparuti Papaveri retici sulle pietraie e il sommesso richiamo delle Pernici bianche mentre in lontananza il Gipeto si staglia nel cielo.

Sulle cime più alte si intravede ancora un po' di neve, che in alcuni punti brilla alla luce del sole, e il cielo azzurro, cosparso di nuvole bianche, sovrasta la catena montuosa creando un'atmosfera piacevole e rilassante.


L’austero paesaggio alpino

Un ciuffo si Silene acaule colora la pietraia

Papaver aurantiacum (Loisel) (= Papaver pyneraicum subsp. rhaeticum)
Il Papaver aurantiacum(1), volgarmente chiamato Papavero dorato o alpino, con il suo colore giallo vivo, costituisce uno dei più belli ornamenti dei ghiaioni calcarei delle Alpi.

Papaver aurantiacum (Loisel), nella variante di colore

Linaria alpina


Cerastium alpinum
Tra le pietraie mimetiche compaiono da nulla un gruppo di Pernici bianche, il cui piumaggio mimetizza facilmente questo uccello in quest’ambiente. E’ davvero uno spettacolo poterle osservare così da vicino mentre sono intente a raccogliere i germogli di Cerastium alpinum di cui sono ghiotte.

Pernice bianca Lagopus muta (Montin, 1776)





(1)Dal sito del F.A.B. (Gruppo Flora Alpina Bergamasca) traggo questa interessante spiegazione del attuale nome scientifico aurantiacum:

“Il binomio scientifico di Papaver aurantiacum, è stato creato nel 1809 dal botanico francese Jean Louis August Loiseleur-Deslongchamps (1774-1849) ed è stato pubblicato nell’opera Notice sur les Plantes à ajouter à la Flore de France (Flora gallica); avec quelques Corrections et Observations, Paris, 1810.
Secondo le regole delle priorità storiche oggi in vigore nella tassonomia botanica, tale binomio ha sostituito le altre denominazioni che attribuivano la specie al Papaver alpinum (1753, Linneo), al P. alpinum β pyrenaicum (1809, Willdenow), al P. pyrenaicum (1821, De Candolle) ed al P. rhaeticum (1885, Leresche)”.

Circa poi il significato del nome del genere, si fa presente che Carlo Linneo nel 1753 ha ripreso l’ antico termine latino papaver, che a sua volta proveniva dal celtico «papa» = pappa


domenica 25 agosto 2013

Divertiamoci con il riconoscimento dei gabbiani…

Con agosto si completa il rientro dei Gabbiani comuni dai quartieri riproduttivi. In modo particolare, già dal mese di luglio, questi uccelli sono tornati sul Lario ma è in questo mese che il lago si popola di questi individui che trascorreranno tutto l’inverno da noi. Tra i molti Gabbiani comuni, la gran parte di questi, sono giovani nati quest’anno con evidenti piumaggi giovanili che spesso si confondono con altri giovani, ma di specie più rare, come ad esempio il Gabbiano corallino presente con pochi individui sul Lago di Como in questo periodo.
Gabbiani, prov. di Como, agosto.
All’attento occhio del birdwatcher tuttavia non passano inosservati questi sparuti individui di specie affine confusi tra i suoi simili e poiché ho già parlato approfonditamente di gabbiani lariani nel post a loro dedicato (Link i gabbiani del Lario)
Oggi sul diario Libereali pubblico immagini di giovani gabbiani, utili per chi volesse cimentarsi in questa divertente ricerca tra i molti svolazzanti gabbiani lariani.
Gabbiano comune giovane e adulto (in secondo piano), prov. Di Como, luglio.
Tre Gabbiani comuni giovani ed un adulto, prov. Di Como, luglio.
Nei primi mesi di vita del Gabbiano comune il piumaggio è caratterizzato da evidenti “gocciolature” di color nocciola che spariranno verso il mese di settembre sostituite dal caratteristico abito da 1° inverno.
Gabbiano comune giovane, prov. di Como, luglio.

Gabbiano comune giovane, prov. di Como, agosto.
Gabbiano comune giovane, prov. di Como, settembre.

Gabbiano comune giovane 1° inverno, prov. di Lecco, dicembre.

Dopo questa serie di immagini riguardante il giovane di Gabbiano comune, dedichiamoci ora al Gabbiano corallino (Larus melanocephalus).

Gabbiano corallino giovane, Domaso (CO), luglio.
Come detto nel post dedicato ai gabbiani, il “corallino” ha abitudini tipicamente costiere e marine, vivendo essenzialmente lungo le coste del Mar Nero e del Mediterraneo orientale. In tempi recenti il suo areale si è ampliato, sia come nidificazione (Delta del Po) sia come svernante. Sul Lario la presenza di questo gabbiano è considerata regolare sebbene sparuta.

Gabbiano corallino giovane, Domaso (CO), luglio.

L’identificazione del Gabbiano corallino non risulta particolarmente problematica né nell’abito estivo né in quello invernale. Tuttavia è facilmente confondibile sia con il Gabbiano comune che con la Gavina in abito giovanile, la quale, comunque, ha zampe chiare e becco più sottile.

Gavina 1° inverno, prov. di Lecco, gennaio.
Con altri gabbiani, il corallino immaturo potrebbe confondersi con i gabbiani americani, quali il Gabbiano sghignazzante e il Gabbiano di Franklin, mah… onestamente sul lago la probabilità di vederli è molto bassa!

Approfittiamo dunque di questi ultimi giorni di vacanza sulle spiagge del Lago non solo per crogiolarci al sole ma anche per divertirci, armati di binocolo, a scovare le diverse specie di gabbiani lariani.

Per tale motivo pubblico la seguente serie di immagini dove il Gabbiano corallino è ripreso in varie pose.









martedì 13 agosto 2013

Cicindele, tigri degli insetti

Diciamo subito che il coleottero illustrato qui sotto, lungo circa un centimetro e mezzo, appartiene al genere Cicindela (pronunciare con l’accento sulla e). E’ un corridore instancabile e rapidissimo: lo sa anche Roberto, che mi ha detto di averlo inseguito a lungo, faticando non poco per riuscire a fotografarlo. “Sei stato fortunato che non abbia preso il volo con la stessa facilità di una mosca per posarsi a pochi metri di distanza, giocando a farsi rincorrere in quel modo per un bel po’ prima di piantarti in asso e sparire” gli ho risposto; è infatti questa la tattica abituale con cui le Cicindele si sottraggono a un possibile nemico.


Cicindela gallica, agosto, Monte Legnone (LC).
Riguardo alla loro velocità ecco quanto riporta un sito Internet curato negli Stati Uniti, dove è molto diffuso un certo tipo di volgarizzazione scientifica spicciola a colpi di misure, numeri, percentuali e paragoni. Dopo aver riferito che una Cicindela può raggiungere i 9 km orari, il compilatore aggiunge che in proporzione alla lunghezza dell’insetto tale prestazione supera di circa 22 volte quella di uno sprinter olimpionico, il quale per eguagliare il coleottero dovrebbe filare a 770 chilometri all’ora! Ma lasciamo queste osservazioni bislacche ai nordamericani, spesso un po’ infantili, e veniamo a considerazioni più pertinenti all’argomento secondo la nostra mentalità.

Dal punto di vista della classificazione, alle Cicindele è successo esattamente il contrario di ciò che è accaduto ad altri gruppi di Coleotteri (vedi su questo blog il post “maggio=Maggiolino”): un tempo inquadrate come famiglia a sé stante col nome di Cicindèlidi, attualmente quasi tutti gli autori le considerano una sottofamiglia dell’immensa famiglia dei Caràbidi. Nel mondo ne sono state classificate a tutt’oggi oltre 2000 specie, di cui meno di una ventina presenti in Italia. Le dimensioni massime sono raggiunte dalle Manticora delle regioni desertiche dell’Africa meridionale, che possono superare i 6 cm.





Abbiamo a che fare con dei formidabili carnivori, tanto che in inglese sono detti tiger beetles, scarabei tigre. Il paragone fu del resto escogitato già da Linneo, che nel suo “Sistema della Natura” (la cui decima e ultima edizione, la più completa, è del 1770) aveva scritto: “Cicindelae insectorum tigrides veloces”, le Cicindele sono le veloci tigri degli insetti.

Come tali, questi coleotteri – che attaccano le loro prede in corsa o addirittura in volo – sono ottimamente equipaggiati per la vita di rapina: osservandoli da vicino si è subito colpiti dalle loro grandi mandibole, slanciate e acutissime, a forma di falce dal bordo seghettato e munita di quattro lunghi denti. Quando si chiudono, queste specie di cesoie si incrociano per un buon tratto e non lasciano scampo alle vittime, che possono esserne letteralmente tagliate in due come da un colpo di forbici.



Carnivori agguerriti sono anche le larve, che però non cacciano in movimento ma mediante una curiosissima tecnica di agguato, per la quale la forma del loro corpo si è modificata vistosamente: osservate al riguardo le illustrazioni a tempera qui di seguito, che si riferiscono alla specie più diffusa in pianura e alle basse altitudini, la Cicindela campestris (vi anticipo che le due tavole sono tratte da uno splendido libro divulgativo d’altri tempi sulla vita dei Coleotteri, Caccia grossa fra le erbe, del quale riparlerò alla fine di questa chiacchierata).

Il vermiciattolo che nasce dall’uovo deposto in primavera nel terreno si scava come tana una galleria cilindrica verticale profonda una ventina di centimetri; il corpo è indifeso ma il protorace e la testa, armata di grandi mandibole a falce disposte verticalmente, sono corazzati e insieme chiudono con precisione l’imboccatura del sotterraneo. La larva attende immobile per ore e ore finché un insettino o un ragno passa sopra il tappo vivente: allora il predatore lo afferra e si lascia cadere con il suo bottino in fondo alla galleria.



Larva di Cicindela campestris nella sua galleria (spaccato).
I due uncini sulla gobba della larva le servono per ancorarsi nel caso in cui una preda robusta rischiasse di trascinarla fuori dalla tana.
Tavola di Mario Sturani, da "Caccia grossa fra le erbe".


Questa viene man mano ingrandita e approfondita col crescere dell’animaletto, che in autunno ne chiude lo sbocco e si rifugia sul fondo, a passare la stagione fredda in una specie di letargo. In primavera riprende la solita vita fino all’autunno successivo, epoca in cui la larva, che dalla nascita ha subito tre mute, è finalmente pronta per la metamorfosi. Blocca di nuovo l’ingresso della galleria e a una certa profondità la allarga facendone una celletta, in cui si immobilizza per trasformarsi prima in pupa (l’equivalente della crisalide delle farfalle) e poi in insetto perfetto. Quest’ultimo dopo una breve puntata all’esterno torna a interrarsi per svernare; ricompare nella primavera seguente, cacciando, riproducendosi e vivendo fin verso la fine dell’estate.

Pupa e spoglia larvale (vecchia pelle della larva) di Cicindela campestris nella celletta in cui avviene la metamorfosi (spaccato).
Tavola di Mario Sturani, da "Caccia grossa fra le erbe".




Il termine Cicindela ci è giunto dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, grande naturalista romano del I secolo, che però chiamava in questo modo la lucciola. Per quanto io ne sappia, l’unico studioso che non si sia limitato a riferirlo ma abbia tentato di ricostruire l’origine della parola fu nel 1917 l’entomologo tedesco Schenkling, secondo il quale Cicindela è da ricollegare al verbo latino candère, risplendere (da cui provengono anche candela, candore ecc.), con il raddoppiamento della sillaba iniziale per indicare azione intensiva e il conseguente cambio della vocale da a in i, secondo un’altra regola della lingua. Insomma, il nome della Cicindela di Plinio significa “molto splendente” o “che non cessa di splendere” e per questo oltre che alla lucciola è stato più tardi attribuito da altri autori a diversi Coleotteri dai colori metallici, come le Cetonie o le Cantaridi. Finalmente, nel ’700 Linneo lo riprenderà per applicarlo in modo ufficiale e definitivo agli insetti di cui stiamo parlando.

E ora finiamo di classificare il soggetto delle foto di Roberto, che lo ha incontrato sul Legnone intorno ai 2200 m di quota. Si tratta della Cicindela gallica, una specie che i naturalisti, con un termine specialistico, definiscono eualpina (dal prefisso eu- che nel solito greco antico significa “bene, proprio, davvero”). Abita cioè esclusivamente le Alpi, tra i 1500 e i 2700 m, dalle Basses Alpes francesi fino al Tirolo e alla Baviera meridionale (in Italia la si trova dalle Alpi Marittime fino all’alta valle dell’Adige).





Qualche curiosità su alcune sue parenti esotiche. Le Cicindele contano il maggior numero di rappresentanti nel sud-est asiatico, dove alcune specie, come quelle del genere Tricondyla, vivono nel folto delle foreste. Poiché le larve non possono scavare le loro gallerie nel terreno, continuamente ricoperto dal cadere delle foglie, si sono adattate a ricavarle nei grossi rami marcescenti di alberi morti o malati!

Una Cicindela del Messico emana un gradevole aroma, cosicché le popolazioni locali ne fanno un infuso in alcool per ottenerne uno speciale liquore. Va detto come anche la nostra Cicindela campestris a volte diffonda un profumo che ricorda la rosa o la violetta.

Quanto alle grosse Manticora africane, veramente impressionanti per le mandibole smisurate e il grande corpo tozzo, una di esse compare in un episodio di un romanzo di Jules Verne, Un capitano di quindici anni. Dato che lo scrittore francese si ispirava spesso ad argomenti scientifici ed era un buon conoscitore di storia naturale (basti pensare alle sue accurate descrizioni di fauna marina in Ventimila leghe sotto i mari), nella circostanza non ci sarebbe niente di insolito, se non fosse che in quelle righe l’autore ha probabilmente nascosto uno dei suoi “scherzetti da studiosi”, vale a dire in grado di essere capiti solo da un pubblico competente.

Specifichiamo. Nella vicenda in questione uno dei personaggi, che in Africa è stato rinchiuso dentro un terreno cintato (dove però nessuno lo sorveglia), scopre una possibile via di fuga grazie a una Manticora, della quale per curiosità sta seguendo le peregrinazioni. Dopo averlo guidato verso la salvezza, l’inconsapevole alleato a sei zampe si congeda volando via; ma come sanno gli addetti ai lavori, una Manticora non potrebbe assolutamente farlo, dato che queste grosse Cicindele hanno perso l’uso delle ali.

Permettetemi di concludere con qualche caro ricordo personale. Proprio alla Cicindela campestre è dedicato per intero il primo capitolo del meraviglioso volume che ho già ricordato, “Caccia grossa fra le erbe”, scritto per i ragazzi dal naturalista torinese Mario Sturani nel lontano 1942: ormai da tempo esaurito quando mio padre ne scovò e me ne regalò una copia nel 1953, quel libro ha cambiato letteralmente la mia vita.

Avevo allora sette anni e quelle pagine, che con l’entusiasmo dei bambini lessi e rilessi fino a impararne lunghi brani a memoria, mi stimolarono a dedicare sempre maggior attenzione agli “scarabei” che incontravo durante le passeggiate con papà nelle belle campagne del Piemonte, dove trascorrevo abitualmente le vacanze al paesino dei miei nonni materni. A quindici anni, nel 1962, deciso a fare dell’osservazione dei Coleotteri un serio hobby scientifico incominciai anche a raccoglierli. Pur senza aver mai considerato la collezione in sé e per sé come il mio obiettivo principale continuo ancor oggi, a distanza di oltre mezzo secolo.

Nel 1964 ebbi la fortuna di conoscere di persona l’autore del mio adorato libro: trattandosi di una persona affabilissima, incominciai a fargli visita diverse volte all’anno e con lui nacque un’amicizia che sono orgoglioso di aver vissuto. Mario Sturani, pittore e ideatore di ceramiche d’arte, non era uno scienziato professionista ma si dedicava all’entomologia per pura passione, studiando in particolare i cicli vitali dei Coleotteri Carabidi; in proposito elaborò pubblicazioni apprezzate dagli specialisti di tutto il mondo. E’ famoso tra l’altro per aver riscoperto, negli anni 40 del secolo scorso, una rara, grande e bellissima specie delle Alpi piemontesi allora ritenuta estinta, il Carabus olympiae, che riuscì a far riprodurre in allevamento, descrivendone la completa biologia fino ad allora sconosciuta.

Se Roberto dovesse fornirci lo spunto per un prossimo post fotografando qualche specie di Carabus mi darà modo di riparlare di un grande, indimenticabile maestro.
Giancarlo Colombo


martedì 6 agosto 2013

Lo Stambecco. Uno scalatore dall’abilità senza eguali


Per sfuggire dalla calura estiva non resta che rifugiarsi sui monti. Questa volta, teatro dell’escursione è il versante lecchese del Monte Legnone.
Veduta dal Monte Legnone (LC): Alto Lario con la foce dell’Adda, la piana del Pian di Spagna, il lago di Mezzola e la Valchiavenna.
Dato il periodo non mi aspetto certo di fare osservazioni rilevanti, e invece, arrivato poco sotto la vetta mi imbatto in un gruppetto di femmine di stambecco con i loro giovani capretti. Avvistare oggi uno stambecco sulle Alpi può sembrare cosa normale. Di fatto la storia recente di questo “signore delle rocce” può essere considerata come esempio emblematico di quanto l’uomo possa, nel bene e nel male, influenzare la vita di una popolazione animale.

Femmina di stambecco con il suo capretto, Monte Legnone (LC).
Lo stambecco in tempi storici era diffuso su tutto l’arco alpino. Purtroppo però, a causa del caratteristico comportamento di fuga che, sfruttando le eccezionali doti di arrampicatore, non porta l’animale ad allontanarsi significativamente dalla potenziale fonte di pericolo ma solo a rifugiarsi generalmente su rocce poco lontane, fece sì che, con l’avvento delle armi da fuoco a partire dal XVI secolo, le sue popolazioni subirono una notevole e rapida contrazione numerica fino a raggiungere la totale estinzione su tutto l’arco alpino salvo uno sparuto gruppo situato sul Gran Paradiso (AO). L’incredibile azione di sterminio della quale lo stambecco fu triste oggetto fu provocata, oltre che per ottenere una notevole quantità di carne, anche dall’antica farmacopea che attribuiva proprietà terapeutiche miracolose alle singole parti del corpo dell’animale, con le quali venivano curate le più svariate malattie (1).
♀ Stambecco, Monte Legnone (LC).




Come anticipato, a questo sterminio si salvò solo un’ esigua popolazione relegata esclusivamente nel territorio del Gran Paradiso grazie alle misure di protezione attuate dai reali di casa Savoia a partire dal 1821, quando la consistenza era ormai giunta a meno di 100 esemplari. La creazione della Riserva reale di caccia del Gran Paradiso (1836) e, successivamente, dell’omonimo Parco Nazionale (1922) garantirono la sopravvivenza di questa residua popolazione che rappresentò la fonte originaria per le operazioni di reintroduzione condotte sulle Alpi avviate con azioni pionieristiche dalla Confederazione Elvetica.


Capretto di Stambecco, Monte Legnone. La femmina ad ogni parto, di norma, danno alla luce un solo capretto, che è in grado di seguire il genitore nei luoghi più impervi sin dai primi giorni di vita. 


Lo Stambecco delle Alpi è attualmente presente per effetto di reintroduzioni e successive diffusioni in tutto l’arco alpino, dalle Alpi Marittime ad occidente sino alle Alpi Calcaree della Stiria e alle Alpi del Karawanke, tra Carinzia e Slovenia, ad oriente.

L’origine della popolazione orobica e di conseguenza anche di quella della provincia di Lecco risale al 1987 quando vennero rilasciati in una prima fase sperimentale 9 individui provenienti dal Parco nazionale del Gran Paradiso. Il progetto di reintroduzione proseguì  nel 1989 con  la liberazione di 88 stambecchi, suddivisi in sei rilasci sulle Orobie bergamasche e due sul versante lecchese del Pizzo dei Tre Signori. Da questi rilasci traggono origine gli individui che frequentano le alte rupi del Legnone e del crinale che porta al Pizzo dei Tre Signori. Sempre in provincia di Lecco lo Stambecco è presente sullo Zucco di Cam e in Valbona, la parte destra della val Biandino.
♀ Stambecco, Monte Legnone (LC).





Stambecco delle Alpi(2)
Capra ibex Linnaeus, 1758

Lo stambecco delle Alpi  è un ungulato appartenente alla famiglia dei bovidi. E' una specie caratterizzata da un elevato dimorfismo sessuale che si manifesta sia nelle dimensioni del corpo (i maschi adulti pesano circa il doppio delle femmine) sia nelle dimensioni delle corna (le corna maschili possono raggiungere una lunghezza di circa 100 cm mentre quelle femminili raramente raggiungono i 25 cm). Vive in ambienti montani tra i 1600 e i 3200 m selezionando preferenzialmente praterie d'alta quota e zone rupestri. In primavera vive a quote più basse rispetto alle altre stagioni ricercando i pascoli che per primi si liberano dalla neve e alzandosi poi progressivamente seguendo l'inizio vegetativo. Le massime quote vengono raggiunte in estate in quanto, mancando di ghiandole sudoripare, ricerca luoghi dove può ripararsi dal calore estivo. In inverno, invece, maggiormente importante rispetto alla scelta di uno specifico orizzonte altimetrico è la selezione di versanti, di norma esposti a sud, particolarmente pendenti e rocciosi, dove minore è la permanenza del manto nevoso e quindi è più facile la presenza di siti di alimentazione. In tutte le stagioni è essenziale la presenza di anfratti, speroni rocciosi e canaloni, visti come potenziali aree di rifugio in caso di pericolo.

♂ Stambecco, ottobre, Parco Nazionale dello Stelvio (SO). 

Il notevole dimorfismo sessuale determina una segregazione sociale tra i sessi. Generalmente infatti i maschi vivono in gruppi separati dalle femmine. Le femmine si trovano insieme ai piccoli, ai giovani di un anno e molto spesso a quelli di due. I maschi di 3-4 anni di solito vivono in gruppi diversi da quelli di età superiore. Gli individui anziani (sopra i 12 anni di età) in genere trascorrono una vita solitaria. Oltre a vivere in gruppi separati, maschi e femmine si trovano anche in ambienti diversi. I maschi sembrano prediligere le praterie d'alta quota, mentre le femmine ricercano maggiormente aree rocciose. Una spiegazione plausibile è che le femmine, più esili, preferiscano luoghi più sicuri e al riparo da possibili predatori e ciò è tanto più vero nella stagione dei parti in cui rimangono per parecchi giorni su pendii particolarmente accidentati e ripidi. La segregazione sessuale viene meno durante la stagione degli amori che va da dicembre a metà gennaio, periodo in cui individui di entrambi i sessi occupano gli stessi ambienti. In questa fase, i maschi spesso sono impegnati in complessi corteggiamenti amorosi che possono prevedere combattimenti violenti a colpi di corna per stabilire una priorità negli accoppiamenti. In realtà la gerarchia tra di loro comincia a stabilirsi già a partire dall'estate, attraverso scontri sempre più cruenti con l'avvicinarsi della stagione riproduttiva. Solamente alcuni fra i maschi adulti riescono però a riprodursi e, generalmente, si tratta di individui tra gli 8 e gli 11 anni di età. Le femmine invece normalmente si riproducono già all'età di 3 anni (età in cui diventano adulte) partorendo in media due capretti ogni tre anni.
Gruppo di ♂ di stambecchi, ottobre, Parco Nazionale dello Stelvio (SO). 

Il dimorfismo sessuale ha come conseguenza anche una dieta parzialmente diversa tra i sessi. Lo stambecco viene classificato come un pascolatore selettivo, cioè pur essendo specializzato in alimenti concentrati è in grado di nutrirsi di foraggi grezzi con elevato contenuto di cellulosa. I maschi, però, avendo il rumine più grande delle femmine tendono a nutrirsi maggiormente di alimenti grezzi, mentre queste ultime ricercano in misura maggiore risorse più nutritive, come gli apici dei fiori e i getti delle dicotiledoni. Scarsamente appetite per entrambi i sessi sono invece le specie legnose e semilegnose anche se il loro consumo può aumentare in caso di carenza alimentare nelle stagioni avverse.

Status e conservazione dello stambecco in Italia

Oggi, sull’Arco Alpino italiano, sono presenti pressappoco 15.000 stambecchi in circa 53 colonie. 

Considerando i valori di consistenza raggiunti in tutto l'Arco Alpino, lo stambecco può quindi considerarsi al riparo dal pericolo di estinzione. Permangono, tuttavia, numerosi problemi per la sua conservazione. La distribuzione attuale della specie, infatti, risulta fortemente ridotta rispetto a quella potenziale (solo il 14%). Ciò è dovuto al fatto che questo ungulato occupa lentamente nuove aree, preferendo utilizzare gli stessi habitat e quartieri di svernamento e spostandosi raramente fuori dal suo areale. Le conseguenze di questo comportamento sono che le popolazioni di stambecco molto spesso rimangono isolate e quindi la variabilità genetica tra gli individui risulta ridotta. 



Oltre a questi problemi, legati alla storia recente della specie, stanno sorgendo nuove minacce. Indagini hanno messo in luce come i cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale potrebbero portare ad una modifica nell’uso dello spazio dello stambecco, ad esempio per una variazione della composizione floristica delle praterie in cui di solito si alimenta o per l’innalzamento del limite della vegetazione arborea. Le specie vegetali potrebbero, in altre parole, iniziare il loro ciclo vitale in periodi diversi rispetto al passato, influenzando negativamente la conservazione del bovide.


A fronte di queste problematiche, risulta evidente l’importanza di continuare a monitorare e studiare le popolazioni di stambecco. In questo contesto, un ruolo fondamentale è assunto dalle aree protette, che rappresentano uno strumento di conservazione della specie molto efficiente: non è certo un caso se il 37% degli stambecchi italiani siano ospitati entro i confini di 3 parchi (Parco Nazionale del Gran Paradiso, Parco Naturale delle Alpi Marittime e Parco Nazionale dello Stelvio). Ma le aree protette non bastano: è infatti essenziale conoscere le popolazioni presenti anche nel resto del territorio e favorire l’incremento nelle consistenze, l’ampliamento dell’areale occupato e un flusso genetico adeguato a garantire un futuro alla specie.

Proprio a seguito del pericolo di estinzione, la specie è stata dichiarata protetta con la legge 27 dicembre 1977 n. 968 ed è rimasta tale in base alla legge 11 febbraio 1992 n.157. Inoltre, il bovide figura nell’allegato III della convenzione internazionale di Berna che l’Italia ha ratificato nell’agosto del 1981, nell’allegato V della Direttiva 92/43/CEE (“Habitat”) e nell’allegato E del D.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 “Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE”.

Nonostante la storia abbia già segnato la vita dello stambecco, i “solerti” amministratori pubblici della provincia di Sondrio hanno tentato di aprire la caccia a questo animale ed è dovuto intervenire direttamente il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per fermare questo scempio.
da ilgiorno.it


♂ Stambecco, ottobre, Parco Nazionale dello Stelvio (SO).

Curiosità
Nelle bisacce dell’”uomo del Similaun”, ritrovato sulle Alpi di confine tra Austria e l’Italia nel 1991, la qui morte è datata circa 4.000 A.C., erano presenti proprio resti di carne di stambecco.

(1)Volendo fare un parallelo di esempio con i tempi moderni, allo stambecco successe quello che attualmente sta accadendo ai rinoceronti, ormai sull’orlo dell’estinzione principalmente a causa delle proprietà magico-farmaceutiche attribuite al loro corno.


(2)Brano tratto da “Il ritorno dello stambecco nelle Alpi”, di Maria Cavedon (Ufficio Faunistico del Parco Naturale Adamello Brenta) articolo completo

Bibliografia

Spagnesi M, A. M. De Marinis (a cura di), 2002 – Mammiferi d’Italia. Quad. Cons. Natura, 14, Min. Ambiente – Ist Naz. Fauna Selvatica.

Mustoni A., Pedrotti L., Zanon E. e Tosi G., 2002 - Ungulati delle Alpi. Nitida Immagine Editrice – Cles (TN)

domenica 4 agosto 2013

I Buprestidi, coleotteri gioiello

Se l’immensa folla degli animali che l’uomo ha calunniati trovasse un giorno un tribunale cui poter chiedere giustizia, l’intera famiglia dei Coleotteri cui appartiene la specie oggi raffigurata – Dicerca berolinensis – avrebbe tutti i diritti di citare per diffamazione nientemeno che Linneo in persona.
Dicerca berolinensis
Eccovi com’è andata. Nel coniare i suoi doppi nomi in latino, che verso la metà del Settecento rivoluzionarono la classificazione degli esseri viventi, il naturalista svedese amava riproporre termini già impiegati dagli autori dell’antichità classica. Così, per designare gli insetti di cui parleremo, nel 1735 inventò il genere Buprèstis, versione latina di un vocabolo greco – boúprestis – usato oltre duemila anni prima da un altro dei più grandi naturalisti d’ogni tempo, il filosofo Aristotele.

Agli inizi dell’800, però, con il continuo aumentare di numero delle specie descritte, molti di quelli che erano gli originari generi di Linneo dovettero essere ampliati. Lo si fece escogitando una nuova e più ampia categoria, di un gradino superiore al genere, la famiglia; tra le altre, nel 1815 fu così istituita quella che prese il nome di Buprèstidae, che oggi annovera circa 15.000 specie descritte (oltre 200 in Italia), le cui dimensioni vanno da 2-3 mm fino ai 7 cm e oltre di alcuni grandi rappresentanti tropicali.

Sono tra i più bei coleotteri in assoluto per gli sfavillanti colori metallici che la maggior parte di loro indossa, particolarità che in inglese, tedesco e francese li ha fatti definire jewel beetles, Prachtkäfers, richards: coleotteri gioiello, scarabei sfarzosi, ricconi.



Il termine greco di cui sopra, invece, non accenna affatto alla ricchezza dell’abito. E per un’ottima ragione: il Bupreste degli antichi non è lo stesso di Linneo. Boúprestis, che viene da boùs = bovino e dal verbo prétho = bruciare, significa letteralmente “bruciabovino”. Aristotele e diversi altri autori che scrissero di storia naturale, di medicina o di agricoltura citano esplicitamente la particolare circostanza da cui la parola ebbe origine: quell’insetto, se inavvertitamente inghiottito dal bestiame con l’erba del pascolo, provoca all’animale da cui è stato ingerito una gravissima infiammazione interna, tale da causare addirittura la morte.

Chi visita abitualmente il sito di Roberto troverà qui l’aggancio con un’altra famiglia di Coleotteri, menzionata nell’ultimo post. Mi riferisco ai Meloidi, quelli che un tempo rientravano nella composizione dei cosiddetti “vescicanti” (vedi "Edemeridi, ovvero un argomento che scotta"): il temibile bruciabovino degli antichi era chiaramente uno di loro.


E i Buprestidi come li si intende oggi, che c’entrano?
Proprio niente.

Tanto per incominciare, le specie più grandi non frequentano affatto i pascoli, bensì i tronchi e i grossi rami degli alberi, di solito preferendo quelli in via di deperimento o morti da poco, ma talora attaccando anche piante sane; le uova vengono deposte nelle fenditure della corteccia e le larve si sviluppano rodendo tra questa e il legno sottostante. E’ vero che molte altre specie, di dimensioni minuscole, bazzicano sui fiori dei prati, ma si involano rapidissime al minimo sospetto – comportamento del resto condiviso da quasi tutti i rappresentanti della famiglia, almeno nel nostro paese – ed è assai improbabile che lascino a un erbivoro distratto il tempo di inghiottirle.

Infine, e soprattutto, nel loro corpo non c’è traccia di cantaridina, la sostanza dal tremendo effetto di cui si diceva nel post precedente. Come e perché al riguardo Linneo abbia potuto prendere un grosso abbaglio (conoscendo il greco antico capiva bene il significato dei termini che usava) resta un mistero.

Il nome inglese di “scarabei gioiello” non è dovuto solo alla scintillante bellezza di questi Coleotteri: taluni abitanti dei paesi caldi, rimasti vicini alla natura, prendono in senso concreto quello che per noi è solo un paragone. In Africa, nel Sud-est asiatico, nell’America tropicale, dove questa famiglia è ricchissima di specie di grandi dimensioni, varie popolazioni approfittano infatti di qualche Buprestide per farne ornamenti.

Non c’è bisogno di uccidere i fornitori di materia prima, dato che le scimmie, che ne sono ghiotte, li catturano sulla vegetazione e ne scartano le elitre, troppo coriacee, che si ritrovano in gran numero – come capitò a me in Kenya – sotto gli alberi o gli arbusti frequentati dall’insetto. Quelle di grosse specie, come le Sternocera africane, le Chrysochroa asiatiche o le Euchroma del centro e sud America, sono lunghe diversi centimetri e forate e infilate si trasformano in meravigliosi braccialetti, collane, orecchini.

I Buprestidi amano moltissimo il sole, al punto che non è facile vederli se non nelle ore più calde delle belle giornate dalla tarda primavera all’estate inoltrata, in assenza di vento, di solito posati su tronchi o grossi rami da poco tagliati o caduti. Tali abitudini offrono una possibile spiegazione ai colori metallici così pronunciati di questi coleotteri: esponendosi in modo tanto appassionato e caparbio alla luce e al calore, i Buprestidi debbono esserne ben protetti; e l’ideale al riguardo è la loro superficie fortemente riflettente.


Due parole specifiche, per finire, sulla Dicerca berolinensis, alla quale abbiamo fatto fare tanta anticamera. La specie, lunga intorno ai 2 cm, depone le uova sul legno morto di ontani, betulle, carpini e faggi, venendo definita un loro ospite secondario (ospiti primari si chiamano quelli che invece attaccano le piante vive). La sua presenza nel nostro paese, oltre che in tutto il nord, è stata riscontrata in Toscana, nel Lazio e in Sardegna, mentre per altre regioni del centro-sud è sinora registrata solo in Calabria.  Il nome del genere significa in greco “dalla coda sdoppiata” e se osservate le punte delle elitre dell’insetto, che anche quando sono chiuse si mantengono leggermente divaricate, non c’è bisogno d’altro; il nome della specie vuol dire “di Berlino” e fu coniato nel 1779 dall’entomologo tedesco Herbst, che evidentemente la ritrovò nei dintorni della città.


E’ un bell’esempio di quanto sia rischioso istituire il nome scientifico di un animale o di una pianta basandolo sulla diffusione geografica del soggetto in questione, che troppo spesso all’atto della scoperta è ancora tutta da valutare. Una specie descritta col nome di germanica può rivelarsi, in seguito a successive ricerche, diffusa anche in altri paesi, dove magari è addirittura molto più comune; oppure, dato che i confini geografici cambiano in seguito alla storia degli uomini, un insetto che molti anni fa fu battezzato italicus si ritrova anche in zone che oggi non appartengono più alla nostra nazione intesa in senso politico. Dato però che in base al codice internazionale di nomenclatura zoologica la descrizione ufficiale si basa sui caratteri morfologici (cioè sulle forme) esclusivi della specie, la conclusione, alquanto sorprendente, è che il nome resta valido anche se geograficamente sbagliato.

In tal senso, uno degli esempi più curiosi è un Coleottero che Linneo definì lusitanus, da Lusitania, l’antico nome latino dell’odierno Portogallo. Chi gli aveva portato la bestiolina per fargliela studiare e denominare doveva ricordare male la località in cui aveva raccolto l’esemplare, o gli esemplari; sta di fatto che l’insetto che ancor oggi si porta dietro l’impegnativa qualifica di Exocentrus lusitanus sta di casa in molti paesi d’Europa, ma dal Portogallo manca del tutto.

Giancarlo Colombo