Se l’immensa folla degli animali che l’uomo ha
calunniati trovasse un giorno un tribunale cui poter chiedere giustizia, l’intera
famiglia dei Coleotteri cui appartiene la specie oggi raffigurata – Dicerca
berolinensis – avrebbe tutti i diritti di citare per diffamazione nientemeno
che Linneo in persona.
Dicerca berolinensis |
Eccovi com’è andata. Nel coniare i
suoi doppi nomi in latino, che verso la metà del Settecento rivoluzionarono la
classificazione degli esseri viventi, il naturalista svedese amava riproporre
termini già impiegati dagli autori dell’antichità classica. Così, per designare
gli insetti di cui parleremo, nel 1735 inventò il genere Buprèstis,
versione latina di un vocabolo greco – boúprestis – usato oltre duemila
anni prima da un altro dei più grandi naturalisti d’ogni tempo, il filosofo
Aristotele.
Agli inizi dell’800, però, con il continuo aumentare di numero delle specie descritte, molti di quelli che erano gli originari generi di Linneo dovettero essere ampliati. Lo si fece escogitando una nuova e più ampia categoria, di un gradino superiore al genere, la famiglia; tra le altre, nel 1815 fu così istituita quella che prese il nome di Buprèstidae, che oggi annovera circa 15.000 specie descritte (oltre 200 in Italia), le cui dimensioni vanno da 2-3 mm fino ai 7 cm e oltre di alcuni grandi rappresentanti tropicali.
Sono tra i
più bei coleotteri in assoluto per gli sfavillanti colori metallici che la
maggior parte di loro indossa, particolarità che in inglese, tedesco e francese
li ha fatti definire jewel beetles, Prachtkäfers, richards:
coleotteri gioiello, scarabei sfarzosi, ricconi.
Il termine
greco di cui sopra, invece, non accenna affatto alla ricchezza dell’abito. E
per un’ottima ragione: il Bupreste degli antichi non è lo stesso di Linneo. Boúprestis,
che viene da boùs = bovino e dal verbo prétho = bruciare,
significa letteralmente “bruciabovino”. Aristotele e diversi altri autori che
scrissero di storia naturale, di medicina o di agricoltura citano
esplicitamente la particolare circostanza da cui la parola ebbe origine: quell’insetto,
se inavvertitamente inghiottito dal bestiame con l’erba del pascolo, provoca
all’animale da cui è stato ingerito una gravissima infiammazione interna, tale
da causare addirittura la morte.
Chi visita abitualmente il sito di Roberto troverà
qui l’aggancio con un’altra famiglia di Coleotteri, menzionata nell’ultimo
post. Mi riferisco ai Meloidi, quelli che un tempo rientravano nella composizione
dei cosiddetti “vescicanti” (vedi "Edemeridi, ovvero un argomento che scotta"): il temibile bruciabovino
degli antichi era chiaramente uno di loro.
E i
Buprestidi come li si intende oggi, che c’entrano?
Proprio
niente.
Tanto per incominciare, le specie più grandi non
frequentano affatto i pascoli, bensì i tronchi e i grossi rami degli alberi, di
solito preferendo quelli in via di deperimento o morti da poco, ma talora
attaccando anche piante sane; le uova vengono deposte nelle fenditure della
corteccia e le larve si sviluppano rodendo tra questa e il legno sottostante.
E’ vero che molte altre specie, di dimensioni minuscole, bazzicano sui fiori
dei prati, ma si involano rapidissime al minimo sospetto – comportamento del
resto condiviso da quasi tutti i rappresentanti della famiglia, almeno nel
nostro paese – ed è assai improbabile che lascino a un erbivoro distratto il
tempo di inghiottirle.
Infine, e
soprattutto, nel loro corpo non c’è traccia di cantaridina, la sostanza dal
tremendo effetto di cui si diceva nel post precedente. Come e perché al
riguardo Linneo abbia potuto prendere un grosso abbaglio (conoscendo il greco
antico capiva bene il significato dei termini che usava) resta un mistero.
Il nome
inglese di “scarabei gioiello” non è dovuto solo alla scintillante bellezza di
questi Coleotteri: taluni abitanti dei paesi caldi, rimasti vicini alla natura,
prendono in senso concreto quello che per noi è solo un paragone. In Africa,
nel Sud-est asiatico, nell’America tropicale, dove questa famiglia è
ricchissima di specie di grandi dimensioni, varie popolazioni approfittano
infatti di qualche Buprestide per farne ornamenti.
Non c’è
bisogno di uccidere i fornitori di materia prima, dato che le scimmie, che ne
sono ghiotte, li catturano sulla vegetazione e ne scartano le elitre, troppo
coriacee, che si ritrovano in gran numero – come capitò a me in Kenya – sotto
gli alberi o gli arbusti frequentati dall’insetto. Quelle di grosse specie,
come le Sternocera africane, le Chrysochroa asiatiche o le Euchroma del centro e sud America, sono
lunghe diversi centimetri e forate e infilate si trasformano in meravigliosi braccialetti,
collane, orecchini.
I Buprestidi amano moltissimo il sole, al punto che
non è facile vederli se non nelle ore più calde delle belle giornate dalla
tarda primavera all’estate inoltrata, in assenza di vento, di solito posati su
tronchi o grossi rami da poco tagliati o caduti. Tali abitudini offrono una
possibile spiegazione ai colori metallici così pronunciati di questi coleotteri:
esponendosi in modo tanto appassionato e caparbio alla luce e al calore, i
Buprestidi debbono esserne ben protetti; e l’ideale al riguardo è la loro superficie
fortemente riflettente.
Due parole
specifiche, per finire, sulla Dicerca
berolinensis, alla quale abbiamo fatto fare tanta anticamera. La specie,
lunga intorno ai 2 cm, depone le uova sul legno morto di ontani, betulle,
carpini e faggi, venendo definita un loro ospite secondario (ospiti primari si
chiamano quelli che invece attaccano le piante vive). La sua presenza nel
nostro paese, oltre che in tutto il nord, è stata riscontrata in Toscana, nel
Lazio e in Sardegna, mentre per altre regioni del centro-sud è sinora
registrata solo in Calabria. Il nome del
genere significa in greco “dalla coda sdoppiata” e se osservate le punte delle
elitre dell’insetto, che anche quando sono chiuse si mantengono leggermente
divaricate, non c’è bisogno d’altro; il nome della specie vuol dire “di
Berlino” e fu coniato nel 1779 dall’entomologo tedesco Herbst, che
evidentemente la ritrovò nei dintorni della città.
E’ un
bell’esempio di quanto sia rischioso istituire il nome scientifico di un
animale o di una pianta basandolo sulla diffusione geografica del soggetto
in questione, che troppo spesso all’atto della scoperta è ancora tutta da
valutare. Una specie descritta col nome di germanica
può rivelarsi, in seguito a successive ricerche, diffusa anche in altri paesi,
dove magari è addirittura molto più comune; oppure, dato che i confini geografici
cambiano in seguito alla storia degli uomini, un insetto che molti anni fa fu
battezzato italicus si ritrova anche
in zone che oggi non appartengono più alla nostra nazione intesa in senso
politico. Dato però che in base al codice internazionale di nomenclatura
zoologica la descrizione ufficiale si basa sui caratteri morfologici (cioè
sulle forme) esclusivi della specie, la conclusione, alquanto sorprendente, è
che il nome resta valido anche se geograficamente sbagliato.
In tal senso,
uno degli esempi più curiosi è un Coleottero che Linneo definì lusitanus, da Lusitania, l’antico nome latino
dell’odierno Portogallo. Chi gli aveva portato la bestiolina per fargliela
studiare e denominare doveva ricordare male la località in cui aveva raccolto
l’esemplare, o gli esemplari; sta di fatto che l’insetto che ancor oggi si
porta dietro l’impegnativa qualifica di Exocentrus
lusitanus sta di casa in molti paesi d’Europa, ma dal Portogallo manca del
tutto.
Giancarlo
Colombo
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