Roberto ci offre finalmente qualche foto di un rappresentante dei Melòidi, ai quali appartiene anche il famigerato boùprestis citato dagli antichi scrittori greci, insetto così velenoso da non lasciare scampo al bestiame che lo inghiottisse con l’erba del pascolo. Forse ve lo ricordate, visto che cenni su questa famiglia, anche se sinora non collegati a specifiche immagini, sono già comparsi in due riprese su “Libereali”: nel post sugli Edemeridi LINK (perché il loro corpo contiene la stessa sostanza tossica, sia pure in misura molto minore) e in quello sui Buprestidi LINK (in quanto il nome latinizzato di Buprestis fu dato da Linneo a Coleotteri del tutto diversi, completamente innocui).
Meloë proscarabaeus, femmina. Circa 3 cm.
Avrete notato come nelle mie chiacchierate a sfondo entomologico questi rimandi dall’una all’altra siano piuttosto frequenti. Oggi mi hanno fornito anche una facile partenza; perché se avessi dovuto incominciare dalla spiegazione del nome, come ho fatto l’ultima volta a proposito dei Cerambicidi, sarei stato nei guai.
Nessuno infatti è ancora riuscito a scoprire dove Linneo abbia pescato, o su che basi abbia eventualmente inventato, la parola con cui nel 1758 battezzò il suo genere Meloë (pronuncia ‘mèloe’), dal quale più tardi prese nome l’intera famiglia. Molti dizionari di italiano, anche autorevoli, la ricollegano senza esitazioni al latino mel = miele, dato che le larve di molti Meloidi, tra cui proprio i Meloë in prima fila, come vedremo si nutrono a sbafo di quello di api selvatiche e talora anche dell’ape domestica. Ma non credete a occhi chiusi a questa derivazione: ci sono buoni motivi per contestarla.
Personalmente mi ha indotto a ripensarci, e a diffidarne, l’aureo libretto in cui nel 1917 l’illustre entomologo tedesco Sigmund Schenkling dava le etimologie di tutti i nomi scientifici di Coleotteri (generi, specie, sottospecie, oltre alle due categorie supplementari oggi abolite dette varietà e aberrazioni: complessivamente intorno alle 9000 voci!) presenti nel monumentale “Fauna Germanica – Die Käfer des Deutschen Reiches” (i Coleotteri dell’Impero tedesco), opera di un altro grande entomologo, il viennese Edmund Reitter. Sul termine Meloë lo Schenkling annotava infatti, eccezione molto rara nel suo meticolosissimo lavoro: “provenienza ignota”.
Copertina di “Erklärung der Wissenschaftlichen Käfernamen aus Reitter’s Fauna Germanica” (spiegazione dei nomi scientifici dei Coleotteri dalla ‘Fauna Germanica’ di Reitter) di Sigmund Schenkling, K. G. Lutz Verlag, Stuttgart, 1917.
Mi sono chiesto come potesse sostenerlo in modo così categorico e credo di aver trovato la risposta. Ai tempi di Linneo, dei Meloidi non si conosceva altro che l’aspetto degli adulti, quindi il papà della sistematica non poteva fare alcun riferimento al miele da loro predato durante la vita larvale! In effetti, come racconteremo tra poco, i meravigliosi quanto complicati cicli biologici di questi insetti non furono scoperti e studiati se non a metà dell’800; e lo Schenkling, da coleotterologo principe, lo sapeva benissimo.
I compilatori dei dizionari succitati, invece, tra cui nientemeno che il Battaglia e il Devoto-Oli, sommi esperti di filologia ma ovviamente non di entomologia, a quanto pare si sono fidati un po’ troppo del loro orecchio di linguisti. Controprova: il Cortelazzo-Zolli, altro splendido e aggiornatissimo dizionario più specificamente etimologico, propone con molto maggior prudenza: “Voce dotta, forse connessa in qualche modo con ‘mel’ ”. Formula due volte dubitativa, insomma, che equivale a pararsi le spalle con una specie di “qui lo dico e qui lo nego”. Vi ho convinto?
Ma è ora di entrare nel vivo dell’argomento. Dopo aver annotato che nel mondo sono state catalogate a tutt’oggi circa 7500 specie di Meloidi, le cui dimensioni vanno dai 3 mm ai 6 cm, presentiamo senz’altro il soggetto capitato sotto l’obiettivo di Roberto verso la fine dell’aprile scorso: si tratta molto probabilmente (la determinazione non è semplicissima in base alle sole foto) del Meloë proscarabaeus, che fin dall’inizio della primavera vagabonda con faticosa lentezza tra l’erba neonata dei prati.
Il Meloë sembra indossare una giacca di parecchie misure troppo corta e stretta.
E già che abbiamo citato lo Schenkling vi traduco la sua spiegazione del nome specifico: “da pro = prima e Scarabaeus, perché compare prima dello Scarabeo di maggio” (nell’originale Maikäfer, nome tedesco del maggiolino). Come forse ricorderete, quest’ultimo, oggi Melolontha melolontha, era stato chiamato da Linneo Scarabaeus melolontha ed era considerato lo scarabeo per antonomasia, essendo ben noto a tutti per il grandissimo numero di esemplari che fino a mezzo secolo fa sbucavano dal terreno e invadevano le campagne di buona parte d’Europa nel maggio di ogni tre anni LINK.
Mentre altri Meloidi sono buoni volatori, i membri del genere Meloë, una ventina di specie nel nostro paese, sono privi di ali; anche le elitre sono molto brevi e lasciano scoperto pressoché per intero l’addome, straordinariamente voluminoso in particolare nelle femmine (come l’individuo fotografato). Il motivo della sua apparente ipertrofia è semplice: contiene intorno alle 10.000 uova.
Anche se l’insetto avesse le ali, difficilmente potrebbe alzarsi in volo, gravato com’è dal peso delle uova.
Poiché si tratta di coleotteri diffusi ma non eccessivamente comuni, non è difficile concludere che solo una percentuale minima delle loro larve deve riuscire a sopravvivere fino a trasformarsi in adulti; altrimenti, stante una simile fecondità, saremmo sommersi dai Meloë. Di fatto la sovrabbondanza riproduttiva, fenomeno piuttosto frequente tra gli insetti, è una strategia della natura per assicurare la conservazione della specie, dato che la prole, non essendo oggetto di altre cure materne oltre alla deposizione dell’uovo nell’ambiente più favorevole possibile, subisce una selezione estremamente massiccia. Davvero curioso notare come molti Meloidi compiano il loro sviluppo ai danni di larve le quali invece ricevono, dagli adulti delle loro specie, attenzioni tra le più assidue e complesse che si conoscano nel mondo degli insetti.
Rigirandosi dopo un capitombolo, il Meloë lascia capire come i tegumenti dell’addome non siano
rigidi e gli permettano così di gonfiarsi man mano che le uova, maturando, aumentano di volume.
Quanto diremo tra poco sulla biologia di questa straordinaria famiglia potrebbe sembrare fantascienza se non fosse realtà quotidiana. Come premessa riprendo un’osservazione che ho espresso a proposito degli Imenotteri parassiti di larve xilofaghe: ovunque in natura si accumuli una possibile risorsa alimentare, di pari passo l’evoluzione plasma i relativi sfruttatori. In questo caso li ha specializzati in un modo così sofisticato da modificare profondamente il loro ciclo vitale: mentre quasi tutti i coleotteri, tra lo stadio di uovo e quello di adulto, non vivono che le due fasi intermedie di larva e di pupa, i Meloidi passano attraverso un certo numero di cambiamenti di forma supplementari che sono stati definiti ipermetamorfosi, cioè metamorfosi soprannumerarie.
Come si accennava all’inizio, la loro scoperta è avvenuta nella seconda metà del XIX secolo, principalmente a opera del naturalista inglese George Newport (i cui studi sui Meloë furono pubblicati nel 1851) e del francese Jean-Henri Fabre (che nel 1857 li completò con i risultati delle proprie ricerche sui Meloë e sui Sitaris). Quest’ultimo è l’entomologo che assaggiò le larve dei Cerambicidi alla griglia, ricordate? LINK
Ripercorriamo dunque l’avventura terrestre dei Meloë. Sul loro ciclo non sono riuscito a reperire illustrazioni sufficientemente chiare o sintetiche, mentre ne ho trovata una chiarissima ispirata alle osservazioni di Fabre sullo sviluppo (del tutto analogo) dei Sitaris, oltre al resto corredata da lettere dell’alfabeto dalla A alla G che ci permetteranno di identificare ancora meglio le varie fasi. Eccola.
Ipermetamorfosi dei Meloidi, secondo le osservazioni di Fabre: sviluppo del Sitaris humeralis (nome oggi cambiato in Sitaris muralis). Cinque forme diverse tra l’uovo e l’adulto. Illustrazione di Paul-A. Robert in Les Insectes I, Éditions Delachaux & Niestlé, Neuchâtel, 1960.
Tra aprile e maggio, dopo l’accoppiamento la femmina scava nel terreno con le zampe anteriori dei buchi cilindrici profondi due o tre centimetri, in ciascuno dei quali, in diverse deposizioni distanziate tra loro di qualche giorno, espelle alcune migliaia di uova (A), richiudendo poi accuratamente lo scavo con la terra accumulata (nella prima deposizione, che è la più abbondante, di un Meloë della specie proscarabaeus, Newport ha avuto la pazienza scientifica di contare 4.218 uova).
Dai 30 ai 40 giorni più tardi ne escono le minuscole larve primarie, lunghe dai due ai tre millimetri (B) e di vario colore secondo le specie; allungate e dotate di tre paia di zampe, appartengono al tipo detto campodeiforme, perché di aspetto simile all’insetto Dipluro dal nome scientifico di Campodea (l’illustrazione seguente vale più di ogni descrizione). Larve di questo tipo si ritrovano anche in altri Coleotteri, per esempio nella Coccinella.
Disegno schematico di larva campodeiforme.
Da G. M. Ghidini, Glossario di Entomologia, La Scuola Editrice, Brescia, 1946.
Quelle dei Meloidi portano il nome specifico di triungulini (B’), perché l’estremità delle loro zampe sembra portare tre unghiette. In realtà si tratta del pretarso modificato a lancetta e piegato perpendicolarmente all’asse della zampa, cui si affiancano lateralmente due setole a forma di uncino.
Triungulino di Meloë proscarabaeus. Da Dizionario della natura, Mondadori, Milano, 1975, vol. I.
Tarso di triungulino di Meloide visto di tre quarti e di lato. Da Paoli. Riportato
in G. M. Ghidini, Glossario di Entomologia, La Scuola Editrice, Brescia, 1946.
I triungulini appena schiusi sono attivi in modo frenetico e si arrampicano il più rapidamente possibile sulle erbe, portandosi subito su qualche fiore. Qui restano in attesa di un’ape in cerca di polline o nettare – nella maggior parte dei casi un maschio o una femmina di qualche specie selvatica, ma talvolta anche un’operaia dell’ape domestica – su cui salgono fissandosi alla pelosità che ricopre la superficie superiore del torace; da lì non possono essere scacciati, perché è l’unico punto che l’imenottero non raggiunge con le zampe quando fa la pulizia della corazza.
Anche le api selvatiche, pur essendo solitarie (non vivono cioè in colonie), per la riproduzione fabbricano un certo numero di cellette che approvvigionano di miele e lo scopo del triungulino è di farsi trasportare nel loro nido per sfruttare quella nutrientissima provvista. Ma poiché i fiori sono visitati da una quantità di insetti dei tipi più vari, su cui i triungulini si attaccano indistintamente, la stragrande maggioranza delle minuscole larve non arriveranno mai a una celletta con miele e sono destinate a morire di fame; questo spiega la gran quantità di uova deposte dalle femmine dei Meloë.
[ Apro qui una breve parentesi per riportare un’annotazione del Fabre molto a proposito riguardo al nostro esordio, in cui si diceva dell’etimologia oscura della parola Meloë. Nel capitolo 16 della serie II dei suoi Ricordi entomologici, lo studioso ci informa che Linneo, avendo notato dei triungulini sul torace delle api, li aveva ritenuti dei parassiti di queste, tanto da classificarli come un insetto a sé, che aveva denominato Pediculus apis, pidocchio dell’ape. Fino alle osservazioni compiute un secolo più tardi dal Newport e dallo stesso Fabre, nessuno poteva immaginare che si trattasse della larva primaria del Meloë, del cui successivo sviluppo a spese del miele non si sapeva nulla: un argomento che dimostra come il termine Meloë non possa essere ricollegato a ‘mel’ = miele, dando indirettamente ragione allo Schenkling ].
Un bel disegno a china di una femmina di Meloë violaceus, eseguita con l’accuratissima tecnica grafica dei pittori naturalisti d’altri tempi. Illustrazione di Paul-A. Robert in Les Insectes I, Éditions Delachaux & Niestlé, Neuchâtel, 1960.
Forse avrete notato come le figure provenienti da libri inserite nei post di questo sito siano sempre estratte da opere edite da vari decenni; questo perché dopo trent’anni dalla pubblicazione, gli eventuali copyright decadono e le immagini possono essere riprodotte liberamente.
Tornando al nostro triungulino in attesa sui fiori, se ha la fortuna di aggrapparsi a una femmina di api selvatiche dei generi Anthophora, Andrena, Halictus ecc. lo si può dire a cavallo in tutti i sensi; ma poiché tra questi imenotteri i primi a sfarfallare sono i maschi, molto spesso la larva si arrampica su uno di loro (nel caso dell’ape domestica il problema non si pone: può trattarsi solo di un’operaia, dato che sia l’unica femmina della colonia – la regina – sia i maschi – i cosiddetti fuchi – non vanno in cerca di cibo sui fiori ma rimangono nell’alveare, dove sono nutriti dalle operaie stesse).
Ebbene, nonostante il triungulino non distingua le api da tutti gli altri insetti, è però in grado di distinguere i maschi di api solitarie dalle femmine, le sole che possono metterlo a contatto con il miele; e nel caso sia salito su un maschio, durante l’accoppiamento lo abbandona per trasferirsi sulla femmina.
Prima o poi, questa rifornisce una celletta con la provvista di miele destinata all’alimentazione della sua larva, vi depone un uovo (che sul miele galleggia) e la sigilla. Mentre la deposizione è in corso il triungulino passa sull’uovo, si lascia chiudere all’interno della celletta con il medesimo e per prima cosa ne divora il contenuto; ma senza abbandonare quello che potremmo definire il guscio, perché nel miele morirebbe annegato!
Dopo questo pasto, grazie al quale cresce di volume, il triungulino si immobilizza per una prima trasformazione. Al momento giusto la vecchia pelle si lacera e ne esce la seconda larva (C); questa, che ha il ventre rigonfio e le aperture respiratorie spostate verso il dorso, è invece in grado di galleggiare sul miele, che incomincia a “bere” ininterrottamente. Mentre lo consuma, a una velocità all’incirca doppia di quella delle legittime proprietarie, subisce due mute che le permettono di ingrandirsi (cambiando pelle ma non struttura); quanto a dimensioni, anzi, l’intera crescita del Meloë si compie in questa fase.
Disegno di un maschio di Meloë proscarabaeus. Da Dizionario della natura, Mondadori, Milano, 1975, vol. I. Oltre all’addome meno voluminoso, si noti un carattere di dimorfismo sessuale presente in molti Meloidi: le antenne del maschio sono genicolate, hanno cioè, verso i due terzi della lunghezza, alcuni segmenti di forma particolare che conferiscono all’appendice una piegatura ‘a ginocchio’. Nelle femmine, la stessa è appena accennata o manca del tutto (vedi l’esemplare delle foto di Roberto).
Date le considerevoli proporzioni dell’insetto adulto, sia Newport che Fabre ipotizzano che la seconda larva, una volta esaurito il miele di una celletta, ne fori le pareti e si porti in quelle adiacenti, sfruttando quanto vi rimane delle provviste fino al momento di trasformarsi a sua volta.
A questo punto l’involucro si fende come nelle mute, ma la forma che ne esce è del tutto diversa: rimane immobile ed è chiamata pseudopupa o pseudocrisalide (D), cioè pupa o crisalide falsa in quanto non precede direttamente lo stadio adulto.
Dentro di lei si forma, senza lacerare e abbandonare la vecchia pelle, una terza larva (E), che rimane anch’essa quasi immobile. Somiglia di più a una vera larva di coleottero, anzi anticipa alcune caratteristiche della successiva ninfa (F), avendo le aperture respiratorie spostate nell’usuale posizione sui fianchi ed essendo già dotata di testa e zampe, strutture che devono però perfezionarsi in un’ulteriore trasformazione.
La terza larva la compie senza uscire dai suoi tegumenti e il risultato è appunto la ninfa (F), stadio corrispondente all’abituale pupa dei Coleotteri.
Quest’ultima, chiusa come una ‘matrioska’ negli involucri dei due stadi precedenti che sono rimasti intatti l’uno dentro l’altro, finalmente subisce la metamorfosi definitiva; e da ben tre spoglie larvali e ninfali sovrapposte esce finalmente l’insetto perfetto.
Vi gira la testa? Ringraziatemi per avervi raccontato le ipermetamorfosi dei Meloë, i quali tra uovo e adulto passano attraverso cinque stadi intermedi; e non, per esempio, quelle delle Mylabris, cui accenneremo più oltre, che ne attraversano addirittura otto!
Non abbiamo ancora detto che i fori visibili lateralmente su ogni segmento dell’addome sono le aperture dell’apparato respiratorio, gli stigmi, dai quali partono altrettante trachee, condotti che si ramificano all’interno del corpo. Mancano veri polmoni, con la muscolatura involontaria che facendoli dilatare e contrarre immette ed espelle grandi quantità di aria: attraverso le trachee, questa penetra solo per diffusione e ciò non le permette di percorrere troppa distanza, col risultato che la massa corporea degli insetti non può superare un certo limite. Dal punto di vista del volume se non della lunghezza (certi insetti stecco tropicali oltrepassano i 30 cm ma sono poco più grossi di un dito), l’insetto più grande in assoluto è il Cerambicide Titanus giganteus, del quale abbiamo parlato nell’ultimo post: LINK la sua massa supera quella di un paio di saponette.
L’intero ciclo dei Meloë, come quello molto simile dei Sitaris, richiede un anno. Anche se alcune ninfe compiono l’ultima trasformazione già entro la fine estate, gli insetti trascorrono poi tutto l’inverno inerti nella celletta; la maggior parte delle larve, però, una volta raggiunto lo stadio di pseudopupa sospende la serie delle metamorfosi per riprenderla e completarla solo all’inizio della primavera successiva, quando gli individui appena trasformati escono all’aperto insieme con quelli rimasti per mesi in stand-by, per usare un’espressione corrente. I tempi dell’intero ciclo sono tali che i triungulini escono dalle uova per portarsi sui fiori tra maggio e giugno, cioè nella stagione in cui circola la maggior quantità di api.
Qui credo sia venuto il momento di concedervi un attimo di respiro con un collage di disegni raffiguranti vari Meloidi.
1 - femmina di Meloë variegatus, la più grande e bella specie di Meloidi europei, presente anche in Italia (può superare i 4 cm).
2 - maschio di Cerocoma muehlfeldi, 11/13 mm, e ingrandimento di una delle sue stranissime antenne.
3 - la celeberrima Cantaride, Lytta vesicatoria, 9/21 mm.
4 - Sitaris muralis, 10 mm, nome attuale del Sitaris humeralis studiato dal Fabre. Rispetto all’adulto che compare alla lettera G nel disegno in bianco e nero sulle ipermetamorfosi, questo esemplare ha testa più grande, elitre e ali più lunghe e addome più snello: si tratta probabilmente di un maschio, mentre nell’illustrazione precedente è raffigurata una femmina.
Disegni di František Severa. 1-3 da “I Coleotteri – atlante illustrato” di J. Winkler e F. Severa, Teti Editore, Milano, 1974.
4 da W. Harde – F. Severa, Der Kosmos-Käferführer, Franck’sche Verlagshandlung, Stuttgart 1981.
Per inquadrare il ruolo biologico dei Meloë, anzi dei Meloidi in generale, occorre mettere a punto un concetto da me citato nella prima parte del post sull’Aegosoma. A proposito degli Imenotteri che depongono le uova nelle larve di altri insetti tra cui i Cerambicidi, scrivevo: “ (…) il fenomeno del parassitismo, crudele forma di convivenza di due organismi uno dei quali danneggia l’altro fino a causarne spesso la morte”.
E’ una definizione un po’ generica ed è meglio precisarla. Nell’ambito del parassitismo, infatti, la moderna biologia distingue due categorie: i parassiti in senso stretto e quelli che vengono definiti “parassiti protelici”, cioè “(che agiscono) prima della fine”, perché sfruttano le loro vittime non da adulte, ma in una fase in cui le stesse non hanno ancora completato il proprio sviluppo. Quasi esclusivi del mondo degli insetti, sono chiamati anche “parassitoidi”.
Ai fini del nostro discorso, la differenza più importante tra le due categorie è che i veri parassiti, pur danneggiando l’organismo che li ospita, non ne causano la morte, mentre la stessa si verifica sempre nel caso dei parassitoidi (come appunto gli Imenotteri che attaccano le larve dei Cerambicidi).
Anche i Meloë possono dunque essere considerati dei parassitoidi? Non in senso stretto, è stato fatto notare: non installandosi nel corpo della larva dell’ape ma semplicemente divorando l’uovo (e in teoria potendo vivere anche solo del miele), la loro qualifica si avvicina di più a quella di predatori.
In tedesco e in inglese, il Meloë è chiamato coleottero dell’olio (Ölkäfer, Oil beetle) perché quando viene attaccato o intimorito rilascia dalle articolazioni gocce oleose di emolinfa, il corrispondente del sangue negli insetti. Nei Meloidi, questa è ricca della famosa cantaridina, la sostanza fortemente tossica e caustica contenuta anche nella corazza: come abbiamo ricordato in apertura, è il veleno che causando la morte del bestiame aveva fatto attribuire dagli antichi Greci a un non meglio specificato Meloide il nome di bruciabovino. LINK
Ma qual era la specie in questione? Scartando la Cantaride, che non frequenta le erbe bensì le foglie degli alberi, al ruolo di boùprestis restano diversi altri candidati: oltre ai Meloë, le Mylabris dalla vivace livrea a bande trasversali giallo-arancioni e nere, o le longilinee Epicauta nere a testa rossiccia. Personalmente propenderei per le Mylabris, molto diffuse nelle regioni mediterranee e buone volatrici, che in certe ore del giorno sonnecchiano aggrappate alle grandi infiorescenze delle Ombrellifere.
Ai loro possibili predatori, questi coleotteri lanciano un chiarissimo avvertimento visivo, dato che gialli, arancioni o rossi associati al nero sono ben conosciuti in natura come avvisi di pericolo: equivalgono a un “non mangiatemi, sono velenoso” (il discorso su queste colorazioni dette aposematiche, cioè di segnalazione, è interessantissimo e lo riprenderemo). Purtroppo i bovini, non essendo animali predatori, non ne sono messi in guardia.
Proprio in questi giorni Roberto ha fotografato un bell’esemplare di Mylabris floralis. La specie, diffusa in Italia settentrionale, misura dai 10 ai 14 mm; rispetto alla variabilis di cui parleremo tra poco, che ha dimensioni analoghe, è leggermente più allungata e presenta una macchia arancione in più all’apice (regione terminale) delle elitre.
Ma poiché dell’involontario misfatto delle Mylabris abbiamo parlato fin troppe volte, è giusto concludere riabilitandole sotto altri aspetti come nostri preziosi alleati.
Nel 1946, in Sardegna ci fu una terribile infestazione di cavallette della specie Dociostaurus maroccanus. L’insetto, presente in tutta l’area intorno al Mediterraneo, di solito conduce vita individuale e non causa eccessivi danni; in certe annate, però, per motivi non ancora del tutto chiariti sviluppa una forma particolare che si riunisce in immensi sciami, i quali migrano in cerca di cibo distruggendo ogni tipo di coltivazione. Anche se eventi simili si erano già verificati sull’isola, quell’anno il fenomeno fu così massiccio da trasformarsi in una vera catastrofe, che venne combattuta da migliaia di uomini con tutti i mezzi disponibili, compresi i lanciafiamme.
Al riguardo si può vedere uno storico filmato, realizzato all’epoca dall’Istituto Luce, LINK.
Il ciclo vitale di questa cavalletta, lunga da 2 a quasi 4 cm, dura un anno intero. In giugno, ogni femmina scava nel terreno fabbricando due o tre speciali strutture a cannello lunghe un paio di centimetri, dette ooteche, cioè contenitori di uova; ciascuna ooteca ne alloggia una trentina. Le uova, che in zone favorevoli possono raggiungere una concentrazione di diverse migliaia per metro quadro, passano l’inverno nell’ooteca e il loro sviluppo riprende la primavera successiva, durante la quale si forma la cosiddetta neanide.
Si tratta di uno stadio che differisce dall’insetto perfetto soprattutto per le minori dimensioni, la temporanea mancanza di ali e l’immaturità sessuale; è però già perfettamente in grado di muoversi alla ricerca di cibo, tanto che dopo la schiusa, in aprile e maggio, si unisce agli sciami di adulti. Dopo qualche decina di giorni la cavalletta, diventata adulta a sua volta, è in grado di riprodursi: si accoppia, depone le uova e il ciclo ricomincia.
(Per non mettere troppa carne al fuoco mi limito ad annotare che la suddetta neanide, forma assente nei Coleotteri, è caratteristica degli ordini di Insetti chiamati “a metamorfosi incompleta”, tra cui gli Ortotteri, cui appartiene appunto la cavalletta. Ecco un altro interessantissimo argomento da riprendere).
I triungulini di Mylabris variabilis, che appena usciti dall’uovo vanno in cerca delle ooteche e ne divorano il contenuto, erano già conosciuti come voraci predatori di uova di Ortotteri, ma la specie non era presente in Sardegna, mentre è comune nell’Italia continentale. Due valenti entomologi dell’epoca, Guido Paoli e Francesco Boselli, direttori degli Osservatori Fitopatologici di Genova e di Cagliari, studiarono dei piani di ricerca; in particolare il Paoli (era stato proprio lui a scoprire, già nel 1932, che le larve del Meloide si nutrono delle uova di Dociostaurus) si occupò della raccolta di oltre 20.000 esemplari di Mylabris e del loro tempestivo trasporto aereo nell’isola, dove i coleotteri vennero rilasciati nelle zone maggiormente infestate.
Alcuni stadi dello sviluppo di Mylabris variabilis, 7/16 mm. Da Paoli.
Riportato in G. Binaghi, Coleotteri d’Italia, Briano Editore, Genova, 1951.
Insieme alle Mylabris furono introdotte, con le stesse finalità, due specie di Ditteri (l’ordine cui appartengono le mosche), Cytherea obscura e Systoechus ctenopterus, le cui larve vivono anch'esse a spese di uova di cavallette. “Le tre specie si sono perfettamente acclimatate in Sardegna, dove ora sono frequenti e ampiamente diffuse, e senza dubbio svolgono la loro funzione nel contenimento delle infestazioni del Dociostaurus” (da Forum degli entomologi italiani, 6-II-2009).
Giancarlo Colombo
L’invasione delle cavallette in Sardegna nella copertina de “La Domenica del Corriere” del 2 giugno 1946.