“Quando tu cammini in un bosco o in una foresta, il grave silenzio non è rotto che dal lieve frusciare e dall’attutito scricchiolar delle foglie morte sotto i tuoi passi. Oltre a questo rumore quasi indistinto, nell’ombrosa pace dei boschi tu non odi che il canto di qualche uccellino nascosto o il picchiar ripetuto del picchio che col lungo becco aguzzo va in cerca di qualche larva sotto le cortecce. Eppure a milioni insetti d’ogni genere scavano e forano per ogni senso il duro cuore degli alberi ed è strano che queste innumerevoli mandibole intente tutte insieme a rosicchiare non producano un infernale rumore, un baccano tremendo d’indiavolata segheria”.
Gallerie larvali di Aegosoma scabricorne in un tronco di frassino.
Così scriveva nel 1942 l’entomologo torinese Mario Sturani nell’ultimo capitolo del suo bellissimo “Caccia grossa fra le erbe”, il libro per ragazzi sulla vita dei Coleotteri da me già ricordato altrove (vedi il post "Cicindele, tigri degli insetti", n.d.r.). Ho scelto di incominciare con quel brano perché, prendendo come spunto alcune recenti foto di Roberto, è proprio di larve che ci occuperemo oggi, anzi in particolare di quelle cui si riferisce la citazione: le larve xilòfaghe, vale a dire, nel solito greco antico, mangiatrici di legno, la cui stragrande maggioranza è da ricondurre ai Coleotteri, appartenenti a numerose famiglie diverse.
Altre gallerie in sezione trasversale e longitudinale.
Alcune di loro, lo dico subito per non essere sospettato di eccessiva indulgenza nei confronti dei miei insetti preferiti, sono molto nocive, come quelle dei piccoli Scolìtidi (Scolytidae), che attaccano in particolare le Conifere; nonostante le specie di maggiori dimensioni non arrivino al centimetro di lunghezza, durante la vita larvale provocano ai boschi montani danni a volte ingentissimi scavando tra legno e corteccia fitte reti di gallerie, che possono uccidere un albero in pochi mesi. Altre specie, pur accontentandosi di legno morto persino da anni o addirittura da secoli, sono ugualmente fonte di guai: tutti conoscono, per esempio, i forellini e la polverina prodotti dal tarlo dei mobili, che altro non è se non la larva di un Coleottero della famiglia degli Anòbidi (Anobidae). Anche lui molto piccolo, 6 mm al massimo, ha la sgradevole abitudine di continuare a infestare generazione dopo generazione il legno danneggiato fino a devastarlo completamente.
Il tarlo dei mobili, Anobium pertinax, e la sua larva all’interno della galleria.
Disegno di Giancarlo Colombo.
Ma se di queste bestioline ci limitassimo a segnalare i misfatti, che oltre al resto sono tali soltanto dal punto di vista egoistico e interessato della specie umana, ce ne faremmo un’opinione incompleta e come tale ingiusta. Buttiamo perciò con decisione sull’altro piatto della bilancia il loro ruolo nel contesto della natura e diciamo che le larve xilofaghe rappresentano una componente fondamentale per il funzionamento degli ecosistemi forestali, nel cui ambito potremmo definirle degli infaticabili riciclatori.
Questa loro utilità si manifesta in diversi modi. Accelerano la degradazione del legno, di cui espellono i resti chimicamente trasformati e arricchiti dalla loro digestione (che avviene secondo modalità molto speciali, delle quali riparleremo); selezionano le piante più resistenti, mantenendo in buona salute la copertura boschiva; accumulano e concentrano nel proprio corpo sostanze azotate e altri composti chimici, di per sé poco accessibili ai processi vitali, che grazie a loro vengono rimessi in circolo. Non va dimenticato infatti che gli insetti xilofagi, oltre a morire di morte naturale, entrano a far parte di un gran numero di catene alimentari, diventando preda, allo stato larvale o da adulti, soprattutto di uccelli ma anche di mammiferi, rettili, anfibi, pesci, oltre che di altri insetti.
La sterminata famiglia di Coleotteri xilofagi che distacca di un bel pezzo tutte le altre, sia per numero di specie sinora classificate – più di 30.000 – sia per la grandezza di molte di loro, è quella dei Cerambìcidi o Longicorni, così detti per le lunghe o lunghissime antenne di cui sono provvisti, che danno loro una speciale maestosa bellezza. Agli insetti adulti dedicheremo la prossima chiacchierata di carattere entomologico di Libereali, illustrata dalle immagini di uno dei più vistosi Cerambicidi della fauna europea, fotografato da Roberto l’estate scorsa: l’Aegosoma scabricorne, che può superare i 5 centimetri.
Maschio di Aegosoma scabricorne in una tavola de “Il libro dei Coleotteri” di Achille Griffini, un insuperato classico della divulgazione naturalistica, che ne raffigurava ben 1300 specie. Edizioni Hoepli, Milano, 1896.
Per una fortunata combinazione, le foto che avete sotto gli occhi vi mostrano proprio le sue larve, che si sviluppano a spese di svariate latifoglie attaccando le parti malate o morte di alberi in via di deperimento; come il frassino ormai malridotto che poco sopra casa di Roberto è caduto l’inverno scorso su un sentiero, per sgombrare il quale il tronco è stato ridotto in spezzoni, rivelando gli insospettati inquilini. Dato che le larve di Aegosoma possono superare i 7 centimetri alla fine della loro crescita, che richiede almeno tre anni dal momento in cui la femmina della specie depone le uova in fenditure della corteccia, si pensi che fior di pranzetto può costituire per un picchio uno di questi salsicciotti viventi, grossi quasi quanto un dito mignolo!
Una larva di Aegosoma.
Altra larva, all’ultimo anno di crescita (7 cm). Particolari della testa.
Poco fa dicevamo che ad apprezzare tali ricchi bocconcini non sono solo gli uccelli ma anche altri animali; potrà sorprendervi che dell’elenco faccia parte anche l’uomo. Tra le popolazioni che ancor oggi vivono a stretto contatto con la natura, della quale sono profonde conoscitrici, più di una infatti consuma abitualmente larve di Coleotteri (specifico che si tratta soprattutto di Cerambicidi). A frugare nel legno ormai sfatto degli alberi morti in cerca di questo cibo, ricco di proteine e di grassi, privo di rischi dal punto di vista igienico e di ottimo sapore a detta di chi l’ha assaggiato, sono per esempio gli aborigeni australiani, diverse tribù africane e amazzoniche e gli indigeni delle isole Figi, i quali ultimi sono ghiotti delle larve dei giganteschi ceràmbici del genere Xixuthrus.
Larve più giovani di Aegosoma. La presenza contemporanea di larve di diverse età indica che nel tronco sono avvenute deposizioni di uova in anni successivi, ovviamente a opera di femmine distinte.
Al riguardo c’è da segnalare come fino a non molti anni fa il bellissimo Xixuthrus heros, il più grande di tutti sfiorando i 15 centimetri, fosse considerato estinto proprio a causa della predilezione dei figiani per questa pietanza tutta speciale (considerevole anche dal punto di vista quantitativo, se si pensa che le larve della specie in questione raggiungono dimensioni da salamini). Tuttavia, anche se per colpa dei golosi l’insetto può essersi fatto raro, finché il suo ambiente verrà rispettato è poco probabile che rischi di scomparire del tutto, dato che in quelle foreste – tuttora fitte ed estese benché in via di riduzione – non mancano alberi che ancor oggi rimangono fuori dalla portata dei cercatori; prova ne sia il fatto che pochi anni addietro un entomologo mio amico, il cui obiettivo principale nel visitare le Figi era di verificare l’eventuale sopravvivenza dello Xixuthrus heros, smentì le previsioni negative dei pessimisti riportandone alcuni esemplari raccolti di recente dai locali.
Xixuthrus microcerus della Malaysia. Parente stretto del gigante delle isole Figi, è però molto più piccolo, misurando “soltanto” 8 cm di lunghezza. L’esemplare, come tutti gli altri raffigurati in questo post, fa parte della collezione di Giancarlo Colombo.
Chi giudicasse quei popoli “poco civili” resterebbe sorpreso nello scoprire che i “civilissimi” antichi Romani erano anch’essi ghiotti di un particolare tipo di grossa larva, molto probabilmente appartenente ai soliti Cerambicidi: la chiamavano cossus e dopo averla estratta dal legno la trasferivano a ingrassare nella farina. Verso la fine dell’Ottocento l’entomologo francese Jean-Henri Fabre, famoso per i suoi splendidi studi sul comportamento degli insetti, ripescò la curiosa notizia negli scrittori latini e decise di effettuare un insolito esperimento. In Provenza, dove lo studioso si ritirò a trascorrere l’ultima parte della sua vita, è ancor oggi frequente un bel cerambice, parente dell’Aegosoma, che ha dimensioni ancora maggiori (fino a quasi 6 cm) e porta il nome di Ergates faber. Il suo sviluppo avviene in tronchi di pino morti da tempo, il cui interno sia in via di disfacimento; in base a mie ricerche personali di qualche anno fa nelle pinete del Carso sopra Trieste, vi posso riferire che un solo tronchetto del diametro di una ventina di centimetri e lungo meno di un metro e mezzo può ospitare svariate decine di grosse larve. Fabre se ne procurò alcune e ne fece spiedini che vennero cucinati alla griglia; dopo qualche momento di perplessità, l’insolito manicaretto fu assaggiato anche dai suoi familiari e da un paio di amici. Tutti lo trovarono molto gradevole, paragonandone il sapore a quello delle mandorle tostate.
Un celebre ritratto in vecchiaia di Jean-Henri Fabre.
Ergates faber, maschio e femmina. Gli esemplari provengono dal Carso triestino.
Qualora non finiscano nella pancia di un picchio o di un naturalista curioso potrebbe sembrare che le larve xilofaghe, vivendo rinchiuse all’interno di tronchi e rami, rispetto a molte altre siano notevolmente più al sicuro dai predatori. Ma ovunque in natura si accumuli una possibile risorsa alimentare, di pari passo l’evoluzione plasma i relativi sfruttatori, in questo caso specializzati in un modo così truce da far impallidire le invenzioni dei film di fantascienza-horror. Esiste tutto un gruppo di Imenotteri – l’ordine di insetti comprendente api, vespe e formiche – che hanno sviluppato un ovopositore (l’organo a tubetto per la deposizione delle uova) lunghissimo e sottile, in grado di penetrare attraverso il legno fino a raggiungere il corpo della larva nella sua galleria; come in un’iniezione, il minuscolo uovo del parassita verrà insinuato sotto la pelle della vittima e la larvetta carnivora che ne nascerà la divorerà viva, con tutta la lentezza necessaria a crescere fino a essere pronta per la metamorfosi.
Ancora larve di Aegosoma.
Non ci siamo ancora posti una domanda fondamentale: dal momento che fabbricano proteine e grassi a partire da un’alimentazione a base di legno, le larve dei Cerambicidi sono dunque in grado di digerirlo? La risposta è sì, ma la strabiliante capacità non è loro. Dopo il fenomeno del parassitismo, crudele forma di convivenza di due organismi uno dei quali danneggia l’altro fino a causarne spesso la morte, eccoci di fronte a un tipo di relazione altrettanto diffusa in natura, la simbiosi, in cui dal vivere insieme entrambe gli interessati ricavano invece un reciproco vantaggio. In questo caso, l’intestino delle larve alloggia dei Protozoi (animali microscopici formati da una sola cellula) i quali vi trovano riparo e nutrimento, eliminando come prodotti di rifiuto particolari enzimi che decompongono il legno e lo rendono assimilabile da chi li ospita; si aggiunga che un’azione analoga è svolta da particolari tipi di funghi, che attaccano pressoché regolarmente i tronchi e rami morti entro i quali la larva si alimenta.
Resti di legno e rifiuti che la larva di Aegosoma ha espulso, forse per ostruire una galleria rimasta aperta quando il tronco è stato fatto a pezzi.
La sua è pur sempre una dieta povera, ragion per cui la vita larvale, in particolare nei Cerambicidi, dura anche diversi anni; per giunta, soprattutto per le specie che si sviluppano in piante ancora vive o appena morte, può prolungarsi anche di molto se il legno perde troppa umidità. Al riguardo la letteratura entomologica riporta episodi che da ragazzino mi facevano sognare: persone che da un mobile proveniente da paesi lontani avevano visto sbucare, a distanza persino di decenni, un bel cerambice esotico. Provavo una certa invidia, certo che a me ben difficilmente sarebbero successi casi del genere; ma come recita il titolo di un vecchio famoso film, mai dire mai. Nel maggio 2010 un conoscente mi portò a casa, vivo e freschissimo, un Cerambicide arrivato dalla Cina dentro una cassa contenente motori, spedita alla ditta in cui la persona lavorava. Identificai subito il Coleottero, lungo quasi due centimetri e mezzo e con antenne che oltrepassano il doppio, per un appartenente al genere Monochamus, alcune specie del quale vivono anche da noi.
Dato che il viaggio, a bassissima velocità, era durato molte settimane, era assai improbabile che l’insetto si fosse rintanato nella cassa prima della spedizione: con tutta evidenza la larva, probabilmente già trasformata in pupa o forse addirittura in adulto, doveva essersi sviluppata nel legno di una delle assicelle di cui era composto il contenitore, dove la bestiolina era rimasta a lungo inerte, come spesso fanno i Cerambicidi dopo la metamorfosi, attendendo anche mesi prima di risvegliarsi da questa specie di letargo e uscire all’aperto. Più tardi riuscii a completare la classificazione del piccolo viaggiatore intercontinentale: si tratta del Monochamus alternatus, originario appunto di Cina, Giappone e Corea, che però è già stato trovato anche negli Stati Uniti, dove probabilmente è arrivato nello stesso modo, con carichi di legname o imballaggi.
Maschio di Monochamus alternatus della Cina (a sinistra; è l’esemplare di cui si parla nel testo) accanto a un maschio di Monochamus sutor delle Alpi, raccolto in Valtellina. Le antenne, come d’uso per i Cerambici conservati in collezione, sono ripiegate all’indietro per evitare rotture, dato che gli insetti seccando diventano fragili; ovviamente, il coleottero vivo le tiene rivolte per lo più in avanti e verso l’alto, obliquamente rispetto al corpo.
Con la globalizzazione, intenzionale e no, vicende analoghe si fanno sempre più frequenti in tutto il mondo. Per limitarci all’Italia e ai Cerambicidi, già solo nella loro famiglia si contano almeno sei specie “forestiere” acclimatatesi da noi negli ultimi ottant’anni; per la cronaca, due vengono dall’Estremo Oriente, una è tibetana, una nordamericana e due sono australiane. Queste ultime tutto sommato non hanno dato troppi fastidi, dato che attaccano esclusivamente gli alberi su cui vivono nella terra d’origine, anch’essi importati (gli Eucalyptus, piantati a vari scopi nel nostro centro-sud a partire dagli anni 30 del secolo scorso); altre invece si sono messe a sfruttare le nostre piante, talora entrando in competizione con insetti indigeni a loro affini.
In qualche caso, poi, i rischi sono di altro tipo: i Coleotteri legati a specifici vegetali a volte possono essere vettori di agenti patogeni, cioè portarsi dietro virus, microbi o altri organismi responsabili di malattie delle piante su cui vivono. Mesi fa ho avuto occasione di conoscere un entomologo che per lavoro si occupa del suddetto argomento e gli ho segnalato immediatamente il mio reperto di Monochamus alternatus. Ne ho avuto la risposta che se il caso non fosse avvenuto ormai quattro anni prima, la ditta cinese produttrice dei motori sarebbe stata da denunciare e perseguire. Il Cerambicide, negli Stati Uniti considerato un grave pericolo, può infatti trasportare un microscopico verme micidiale per le Conifere; cosicché, per prevenire la diffusione accidentale di quell’insetto come di ogni altro, chi spedisce imballaggi in legno è severamente tenuto dalle leggi internazionali a sottoporli a trattamenti chimici preventivi allo scopo di uccidere gli eventuali inquilini, trattamenti che evidentemente la poco scrupolosa ditta cinese a suo tempo non aveva compiuto. Per inciso, la persona in questione mi ha informato che il mio reperto di Monochamus alternatus è il primo conosciuto non solo in Italia, ma nell’intera Europa; resta solo da sperare che fosse anche l’unico e che tale rimanga.
Il maschio di questa coppia di Phoracantha semipunctata, specie nativa dell’Australia, proviene dalla Sardegna e la femmina dalla Sicilia, due regioni in cui è frequente l’Eucalyptus.
Nel nostro paese, il caso peggiore in assoluto si è verificato negli ultimi quindici anni proprio da noi in Lombardia, nell’alto milanese, dove nel 2000 è stata riscontrata la presenza, ormai già massiccia e diffusa, di un bellissimo ma dannosissimo cerambice originario dell’Estremo Oriente. Lungo fino a tre centimetri e mezzo, di un nero lucido cosparso di macchie candide e con zampe e antenne di un delicato grigio-azzurro, porta il nome scientifico di Anoplophora malasiaca (secondo alcuni autori si tratta di una specie a sé, secondo altri è invece una sottospecie dell’Anoplophora chinensis; altri ancora sostengono che con lei sia arrivata anche una seconda specie, estremamente simile, l’Anoplophora glabripennis).
Un maschio di Anoplophora.
Da agricoltura regione Lombardia
Il coleottero, i cui primi esemplari sono probabilmente usciti da bonsai d’importazione, si è rivelato estremamente nocivo in quanto depone le uova in piante vive e in piena salute, che venendo crivellate di gallerie soprattutto in prossimità del ceppo sono spesso uccise dall’ospite. Circostanza aggravante: la larva, che impiega un anno o due per giungere a maturità, non è obbligatoriamente legata a un unico vegetale, ma si sviluppa in almeno una cinquantina di alberi e arbusti diversi; il che, oltre ad agevolare e moltiplicare le sue possibilità di diffusione, rende molto più difficile individuare e circoscrivere i focolai di infestazione. Al riguardo, la nostra regione è quindi sotto allarme ecologico: si pensi che soltanto nel 2010 (non conosco dati riferiti ad altri anni) per combattere l’Anoplophora era stata preventivata una spesa di 10 milioni di euro!
Potete vedere l’insetto, ripreso dal vivo, in questo filmato del Servizio fitosanitario della Regione Lombardia
Approfittiamo di “Libereali” per pregare chi eventualmente avvistasse l’Anoplophora di comunicarcelo con la massima urgenza e ricordiamo un ultimo aspetto negativo del problema, comune a ogni tipo di organismo dannoso importato: nelle regioni invase mancano gli specifici nemici naturali che nelle zone di provenienza mantengono il numero degli individui di ogni essere vivente entro limiti compatibili con l’ecosistema. Per questo, riferiscono le ultime sequenze del filmato, uno dei mezzi di lotta è l’allevamento e la diffusione nelle zone colpite dall’Anoplophora di una piccola vespa, che nei paesi d’origine può deporre le uova nelle larve del cerambice, come è stato raccontato più sopra.
Concludo con un’osservazione personale, che ritengo davvero insolita. Nel 2001 dismisi alcune vecchie cassettine vetrate, in legno di faggio, che avevano ospitato una parte della mia collezione di Coleotteri; rimasero in solaio fino al 2008, quando durante uno dei periodici allargamenti della raccolta decisi di riutilizzarne temporaneamente un paio. Riportandole nel mio studio le collocai insieme con le altre nell’apposito armadio, che può contenere fitte fitte l’una sull’altra oltre un centinaio di cassette in settori verticali affiancati, entro i quali ciascuna scorre su apposite guide. Nella quiete della stanza, in cui passo molto tempo, presto udii una specie di leggero grattare intermittente, a me ben noto: pur non causando “un baccano tremendo d’indiavolata segheria”, come annotava Sturani, le larve di Cerambicidi che stiano rodendo legno duro e secco producono un lieve scricchiolio ripetuto, perfettamente udibile in un ambiente silenzioso. Da ragazzino lo avevo sentito provenire da una trave del tetto dell’antica casa in cui allora abitavo e sapendo che ne era responsabile un futuro cerambice andavo ogni tanto ad ascoltarlo; più tardi avevo appreso che due specie in particolare possono deporre le uova nelle travature. Evidentemente una femmina dell’una o dell’altra aveva gironzolato nel mio solaio, affidando un ovetto anche al legno della cassetta che ora faceva quel rumore.
Sospesa com’era sulle sue guide, fu facile tenerla sott’occhio, in attesa che sotto di essa comparisse una sottile polverina; e un paio di giorni dopo ecco sbucarne proprio il cerambice che avevo previsto, in base all’albero da cui sapevo provenire il legno (l’altra delle due specie attacca solo le Conifere). Si tratta del Trichoferus cinereus, lungo un paio di centimetri, coperto di una patina vellutata di colore tra il rosato e il nocciola. L’avevo già trovato sia durante le mie prime ricerche in Piemonte, sia molti anni più tardi nella zona in cui abito, in Lombardia: la specie non è rara. Probabilmente unica, però, è la circostanza che un insetto destinato a finire in una cassetta da collezione dopo morto ne abbia abitata una già prima di nascere.
L’esemplare di Trichoferus cinereus di cui si parla nel testo.
Giancarlo Colombo