sabato 21 dicembre 2013

Solstizio d'inverno

Oggi 21 dicembre alle ore 12:11 inizia ufficialmente l'inverno.

Una folaga, il sole d’inverno, il lago ed ecco alcune immagini del mio personale solstizio invernale.

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Un popolare e diffuso detto recita: “Santa Lucia è il giorno più corto che ci sia”, ma dato che questa ricorrenza cade il 13 e non il 21 dove sta l’errore?

Curiosando nel web ho trovato questo articolo di Franco Martinelli di cui propongo di seguito qualche spunto di riflessione.

Fino al 1582 era in uso il Calendario Giuliano che per errori di arrotondamento aveva perso di circa 10 giorni il sincronismo con gli eventi astronomici e stagionali; in tale periodo il solstizio d’inverno cadeva proprio intorno al 13. La riforma del calendario attuata in quell’anno da Papa Gregorio XIII comportò la soppressione dei giorni eccedenti riportando il solstizio alla sua data tradizionale, cioè il 21. Ciò nonostante il proverbio è rimasto nell’uso corrente ed è tutt’oggi usato sebbene impropriamente. Però il caso vuole che in prossimità del 13 dicembre si verifichi che i sole tramonti più presto che al solstizio del 21dicembre, questo dipende dal fatto che mentre la Terra ruota su se stessa con velocità costante, non fa altrettanto nella sua rivoluzione intorno al Sole, provocando così una differenza variabile fra l’ora solare vera e quella segnata dai nostri orologi. L’anticipo che il Sole ha sui nostri orologi si riduce molto rapidamente all’inizio di dicembre (perde 8 minuti in 20 giorni), mentre cala la velocità con cui le giornate si accorciano (le giornate si accorciano di quasi 2 minuti all’inizio del mese mentre al solstizio sono costanti). Per questo il Sole riesce a tramontare con 3 minuti di anticipo attorno Santa Lucia rispetto al solstizio, ma visto che il sorgere del sole è ritardato di alcuni minuti in definitiva resta il 21 dicembre il giorno più corto dell’anno.

SOLSTIZIO INVERNALE: IL 21 O IL 22?
Per tradizione popolare il Solstizio invernale è associato al 21 di Dicembre, ma non sempre esso si verifica in tale giorno. Come noto l’anno solare è lungo 365 giorni 5 ore e 49 minuti circa, mentre l’anno civile, essendo necessariamente costituito da giorni interi trascura le briciole e si ferma a 365.

Questo significa che ogni anno di calendario noi lasciamo per la strada queste briciole che determinano uno sfasamento progressivo rispetto ai fenomeni astronomici a ciclo annuo. Per recuperare questo sfasamento, come è noto a tutti, ogni quattro anni viene aggiunto un giorno all’anno civile, riportando così le cose (quasi) a posto.

Questo comporta che il Solstizio ogni anno cada circa 6 ore più tardi rispetto all’anno precedente. Quando cade un anno bisestile, conservandosi immutato l’incremento annuale di circa 6 ore, si avrà però un salto all’indietro di un giorno, grazie all‘inserimento del 29 Febbraio.
L’imperfezione quindi del nostro calendario fa sì che il Solstizio invernale (ma non solo esso; questa regola ovviamente vale anche per quello estivo e per gli equinozi) oscilli attualmente tra il 21 ed il 22. C’è da sottolineare che aggiungere un giorno intero ogni quattro anni non riporta esattamente le cose a loro posto; si aggiunge qualcosa di troppo che però questa volta viene recuperato ogni quattrocento anni. Resta pertanto una sorta di deriva temporale che fa sì che, in un lungo periodo, la oscillazione delle date non si fermi al 21 e al 22 ma, ogni tanto sfori sia verso il 20 che il 23. Così ad esempio l’ultima volta che il Solstizio si è verificato il 23 Dicembre risale al 1903 iniziando una lunga serie ininterrotta di 36 anni in cui poi è caduto sempre di 22. La prossima volta che cadrà il 20 sarà l’anno 2080 alternandosi con il 21 fino al 2101 per por scomparire dal calendario per quasi quattrocento anni.

DIES NATALIS INVICTI SOLIS.
A questo punto di svolta del Sole che, dopo essere arrivato al punto più basso del suo percorso stagionale torna ad allungare le giornate, gli antichi Romani (ma anche se in modo diverso un po’ tutte le altre civiltà del mondo) associarono la festa della nascita del Sole Invitto, del Sole cioè che tornava a illuminare le giornate e scaldare il suolo. Questa festività segnava la fine del ciclo negativo del Sole e l’inizio di un nuovo periodo stagionale. Il nostro odierno Capodanno, che cade molto prossimo al Solstizio, origina appunto da questa festa. Ma non solo; anche il Santo Natale deve la collocazione della sua data proprio a questa ricorrenza. Nel IV secolo Papa Liborio volle sovrapporre alla festa pagana del Sole Invitto la festa cristiana del Natale di Gesù Cristo. Solo successivamente le tre ricorrenze (Natale, Capodanno e Solstizio), nelle vicissitudini delle riforme calendariali e forse anche per esigenze liturgiche, si sono separate. La loro vicinanza però testimonia ancora oggi la loro comune origine.

venerdì 13 dicembre 2013

Sua Maestà l’Archaeopteryx, il più celebre antenato degli Uccelli attuali

Oggi tutti sanno qualcosa – i bambini addirittura moltissimo – dei dinosauri, argomento lanciato nel modo più spettacolare presso il grande pubblico nel 1993 dal film Jurassic Park. Da allora in poi, sulla scia dello strepitoso successo commerciale di quella favola moderna si sono moltiplicate le iniziative di ogni tipo, dalla produzione di documentari o di libri di divulgazione scientifica fino a quella di giocattoli e videogames, che in varia misura hanno contribuito a diffondere presso grandi e piccoli una maggior conoscenza della storia della vita sulla Terra.

All’epoca in cui la pellicola esordì nelle sale era già passata una ventina d’anni dal giorno in cui, acquistando una delle prime enciclopedie monografiche dedicate agli uccelli, mi ero trovato a leggere di quello che è stato definito il più famoso tra tutti i fossili mai venuti in luce: l’Archaeopteryx, allora noto soltanto a un ristretto pubblico di appassionati di scienze naturali, i quali per reperire al riguardo informazioni meno che generiche erano costretti a rivolgersi a testi specialistici.01_Berlino_IMG_7376 (Medium)

Poche settimane fa ho finalmente avuto un nuovo incontro, stavolta non solo su carta, con quello straordinario antichissimo animale visitando il Museum für Naturkunde (Museo di Storia Naturale) di Berlino, dedicato al grande naturalista ed esploratore Alexander von Humboldt (1769–1859), dove è gelosamente custodito il più completo esemplare conosciuto del prezioso fossile.

 

01_7257-c (Medium) Il Museum für Naturkunde di Berlino.

Attualmente, però, chi decidesse di approfondirne la conoscenza rivolgendosi a Internet va incontro, rispetto a quarant’anni fa, al problema opposto: si trova sommerso da uno smisurato eccesso di materiale. Ho quindi pregato di darmi una mano l’amico Giancarlo, che già conoscete come commentatore delle mie foto di insetti, dato che oltre ai Coleotteri un’altra sua grande quanto antica passione naturalistica è la paleontologia (per molti anni ha compiuto specifiche ricerche sul Lariosaurus, un rettile marino i cui fossili sono stati ritrovati nella nostra zona e sul quale ha scritto gli unici due libri di divulgazione sinora esistenti, il secondo pubblicato l’estate scorsa). Vi propongo qui di seguito un suo riassunto a grandi linee dell’affascinante argomento di oggi. (n.d.a. – chi fosse interessato ai libri di Giancarlo Colombo sul Lariosauro può consultare: "Lariosaurus" e "Alla ricerca del Lariosauro perduto").

02_2013-10-10_Archaeopteryx_Milano (2)-c (Medium)Archaeopteryx. Disegno originale di Linda Pellegrini nell’ufficio del paleontologo dott. Cristiano Dal Sasso al Museo di Storia Naturale di Milano (per gentile concessione del dott. Dal Sasso).

 

“Come la storia di molte altre scoperte paleontologiche, anche quella dell’Archaeopteryx ha un prologo che con i fossili non c’entra per nulla. La litografia (dal greco antico líthos = pietra e gráphein = scrivere, trascrivere) è una tecnica di riproduzione meccanica delle immagini, in origine chiamata "stampa chimica su pietra", inventata nel 1796 dal bavarese Alois Senefelder e diffusasi in tutta Europa a partire dai primi anni dell’800. Non entriamo nei dettagli del procedimento, in cui il disegno da riprodurre viene tracciato con particolari sostanze sulla matrice; a noi interessa il fatto che quest’ultima è costituita da una lastra di calcare compatto, a grana minutissima e omogenea. Ideale allo scopo si rivelò la roccia finemente stratificata che incominciò a essere estratta con regolarità dalle cave dei dintorni di Solnhofen, cittadina nelle vicinanze di Monaco di Baviera.

Ben presto quei giacimenti, originati nel periodo Giurassico dalla deposizione di fanghi sottili in un mare caldo poco profondo (il clima terrestre era uniformemente di tipo tropicale e i continenti occupavano posizioni diverse dalle attuali), interessarono anche gli studiosi di storia naturale, dato che appiattiti tra gli strati si rinvenivano, in uno stato di conservazione eccezionale, numerosi e splendidi fossili di organismi sia marini che terrestri. Questi ultimi vivevano su aree emerse allora presenti poco più a settentrione, ma talvolta i loro cadaveri finivano in mare spinti da uragani o trascinati dai corsi d’acqua ingrossati dalle piogge; calando sui bassi fondali, dove erano lentamente ricoperti dai sedimenti, si fossilizzavano in modo analogo ai resti degli animali acquatici. Furono proprio gli organismi terrestri a fruttare, nel 1860, un reperto mai visto prima di allora in rocce del Giurassico: una penna. Il ritrovamento fece sensazione, perché testimoniava l'esistenza, in un’epoca che secondo le più recenti valutazioni degli studiosi va all’incirca dai 145 ai 151 milioni di anni fa (Giurassico finale o Titoniano), di veri e propri uccelli, animali sino ad allora ritenuti assai più recenti; o almeno, di loro parenti ancora sconosciuti ma strettissimi.

Exif_JPEG_PICTURE                                              La storica penna singola attribuita all’Archaeopteryx. La foto è stata scattata al Museo di Berlino nel settembre 2011, in occasione della prima esposizione del reperto al pubblico (Foto Notafly - Wikipedia).

La penna solitaria fu descritta nel 1861 da Hermann von Meyer, che in base alle convenzioni della sistematica attribuì alla creatura cui era appartenuta il nome scientifico di Archaeopteryx lithographica. Mentre la seconda metà della denominazione fa riferimento alla roccia madre contenente il fossile, usata come già detto quale supporto per la litografia, Archaeopteryx – che proviene anch’esso dal greco – è l’unione di archáios = antico e ptéryx = ala (la pronuncia corretta del termine composto, che in base alle regole del greco antico sposta indietro l’accento, è “Archeòpterix”).

Ptéryx vale anche “penna” o “piuma” (e al riguardo eccovi una curiosità linguistica: mentre per indicarle l’italiano ha due differenti vocaboli, una sola parola designa indistintamente piume e penne non solo in greco, ma anche nelle altre principali lingue moderne dell’Europa occidentale. Abbiamo così plume in francese, pluma in spagnolo, feather in inglese e feder in tedesco. Il russo, invece, ha come noi due voci distinte, pùkh = piuma e piruò = penna).

Archaeopteryx potrebbe quindi significare anche “antica penna”, nome che per il primo reperto sarebbe altrettanto adatto se non addirittura più calzante, visto che si trattava appunto di una penna (comunque non di una piuma). Ma in base a documenti dell’epoca, sembra che von Meyer intendesse il nome da lui creato nel primo dei significati di cui si è detto: “antica ala”, nel senso di “antico essere provvisto di ali”, sottintendendo “dello stesso tipo di quelle degli uccelli” (oltre ai fossili di insetti, da oltre mezzo secolo si conoscevano quelli degli Pterosauri, rettili volanti contemporanei dei dinosauri, in cui l’ala ha una struttura differente). E’ del resto abbastanza diffuso, in sistematica, l’uso di battezzare un animale nominando un dettaglio particolarmente significativo della sua anatomia. Un bellissimo esempio è proprio quello del primo rettile volante mai scoperto, che nel 1809 il francese Cuvier aveva chiamato Pterodàctylus (letteralmente “dito alato”, dato che in questi animali l’ala era costituita da una membrana sostenuta da un dito della zampa anteriore).

04_Rhamphorhynchus_7289-c (Medium) Nei calcari del Giurassico superiore di Solnhofen furono ritrovati anche splendidi fossili di Pterosauri, un gruppo più antico degli antenati degli uccelli e da essi del tutto indipendente; l’esemplare illustrato dalla foto appartiene al genere Rhamphorhynchus, nome che significa “dal muso a becco”.

Altra curiosità, stavolta di carattere paleontologico. Nonostante il nome di Archaeopteryx, più tardi attribuito anche a resti scheletrici, sia stato creato proprio per battezzare la penna singola, gli studiosi non possono essere certi che questa sia appartenuta realmente alla specie di cui furono in seguito ritrovate le ossa, piuttosto che a un diverso antenato degli Uccelli. Gli stessi esemplari sinora scoperti, in tutto undici dai più completi ai più frammentari, non trovano concordi gli specialisti, secondo alcuni dei quali diversi reperti potrebbero essere attribuiti ad altre specie (per una di queste è stato proposto il nome di Archaeopteryx bavarica, per un’altra quello di Archaeopteryx recurva) o addirittura ad altri generi, sia pure strettamente affini (Archaeornis, Wellnhoferia, Jurapteryx). Noi ci atterremo qui all’interpretazione maggiormente accettata, secondo la quale tutti i fossili noti rientrano nel campo di variabilità individuale dell’Archaeopteryx lithographica.

Un anno dopo il ritrovamento della penna, a Langenaltheim – una località della stessa zona – avvenne una scoperta di gran lunga più importante: il primo scheletro di Archaeopteryx, anche se incompleto (l’esemplare è privo del cranio e delle vertebre del collo). Non si sa chi lo abbia ritrovato, ma sembra che esso sia stato ceduto a mo’ di pagamento per prestazioni professionali al medico Karl Häberlein, appassionato raccoglitore di fossili, il quale in seguito lo vendette per 700 sterline al British Museum of Natural History di Londra. Proprio in quell’epoca (1859) era stata pubblicata la fondamentale opera di Charles Darwin "L'origine delle specie" e il sensazionale reperto, che mostrava allo stesso tempo caratteri da rettile e altri da uccello, appariva chiaramente come una forma intermedia tra i due gruppi, costituendo una straordinaria testimonianza in favore della teoria dell'evoluzione.

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L’esemplare di Archaeopteryx acquistato dal Museo di Londra. Da Owen, R., 1863. On the Archaeopteryx of von Meyer, with a description of the fossil remains of a long-tailed species, from the lithographic stone of Solenhofen [non si tratta di un errore ma della forma antica del nome geografico, n.d.r.]. Philosophical Transactions of the Royal Society of London 153:33-47. ( Link fonte dell’immagine)

 

 

 

Si rende qui necessario aprire un’importantissima parentesi, di carattere linguistico, a proposito del termine “teoria”. La parola, quando venga riferita a realtà o concetti scientifici da considerare acquisiti oltre ogni possibile dubbio (come appunto l’evoluzione delle specie viventi, confermata da innumerevoli testimonianze nell’arco di oltre 150 anni), non va interpretata nel significato di “opinione, ipotesi da verificare”, spesso assegnatole dal parlare comune e in questo caso sostenuto in malafede dai creazionisti; ma ha il ben diverso e ben preciso valore di “formulazione sistematica di principi generali relativi a una scienza (Devoto-Oli). Nessuno può volontariamente fraintendere, dandole il senso di “ipotesi da verificare”, la teoria geofisica della tettonica a zolle così come è stata comprovata dopo le ricerche oceanografiche degli anni ’60, o la teoria matematica degli insiemi!

Nel 1874 o 1875 venne in luce l’esemplare più integro che si conosca, quello ancor oggi esposto a Berlino. Sempre ritrovato nella formazione del calcare di Solnhofen, proviene dal Blumenberg, un’altura nei pressi di Eichstätt, e fu scoperto dal contadino Jakob Niemeyer, che lo vendette a un oste, certo Johann Dörr, per ricavarne il denaro necessario a comprarsi una mucca. L’acquirente rivendette il fossile a Ernst Otto Häberlein, figlio del medico di cui sopra, che a sua volta lo mise in vendita nel 1877. Poiché la Germania si era lasciata sfuggire il primo Archaeopteryx e a questo nuovo preziosissimo reperto, come già era accaduto per il precedente, si stavano interessando scienziati stranieri, gli studiosi tedeschi e la stampa intrapresero una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e nel 1881 Ernst Werner von Siemens, fondatore della famosa azienda oggi multinazionale che porta il suo nome, finanziò l’acquisto del pezzo (pagato 20.000 marchi d’oro) destinandolo allo Humboldt Museum.

06_Archaeopteryx_Berlino-Brembilla-7300-c (Large) Archaeopteryx, l’originale dello Humboldt Museum, Berlino. Sotto vetro blindato, come La Gioconda.

Il fossile, conosciuto da allora in poi come “l’esemplare di Berlino” e descritto nel 1884 da Wilhelm Dames, avendo conservato testa e collo avrebbe permesso di completare l’elenco delle caratteristiche rettiliane e di quelle da uccello: tra le prime la presenza di denti, le dita della mano provviste di artigli, lo sterno non carenato e la coda sorretta da vertebre; tra le seconde, oltre alle penne, le clavicole fuse a formare la furcula o forcella, il cosiddetto osso dei desideri. Per inciso, le dimensioni medie dell’Archaeopteryx erano quelle di un corvo, anche se la coda era insolitamente lunga per un uccello – ma non per un rettile – rispetto alla lunghezza totale del corpo, che si aggirava intorno ai 50 cm; il peso doveva essere di circa 1 kg.

07_Prehistoric Earth1 L’Archaeopteryx accostato all’attuale Gazza (Pica pica) in una ricostruzione grafica di John Sibbick.

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Disegno di Mark Hallett raffigurante il cranio di Archaeopteryx e un particolare della sua dentatura. Questo tipo di denti (detti tecodonti), inseriti in alveoli – e non cresciuti sopra la mandibola o di fianco a essa, come in vari gruppi di rettili sia antichi che attuali – sono uno dei caratteri che indicano la stretta parentela dell’Archaeopteryx con i dinosauri.

 

 

Nel 1897, peraltro, Dames attribuì questo secondo reperto a un nuovo genere, chiamandolo  Archaeornis siemensii; oggi lo si ritiene un Archaeopteryx, anche se recenti analisi sembrerebbero avvalorare l’ipotesi della sua appartenenza a una specie distinta da lithographica, che potrebbe quindi essere chiamata Archaeopteryx siemensii.

Accenniamo solo di sfuggita agli altri nove fossili scoperti a tutt’oggi, che vanno da semplici frammenti a scheletri quasi completi, nessuno dei quali ha però conservato penne altrettanto splendide di quelle dei primi due reperti. Tra questi successivi ritrovamenti, avvenuti tra il 1951 e il 2011, ricordiamo l’individuo di maggiori dimensioni sinora noto (“esemplare di Solnhofen”) e un secondo le cui ossa sono particolarmente ben conservate (“esemplare di Thermopolis”). Aggiungiamo un’altra curiosità tra le tante che stiamo incontrando lungo il nostro percorso: il frammento più incompleto (“esemplare di Haarlem”), consistente in parti di ossa degli arti e poche vertebre e costole disarticolate, fu in realtà il primo in ordine di scoperta, essendo venuto in luce nel 1855. Descritto da von Meyer due anni più tardi col nome di Pterodactylus crassipes, soltanto nel 1970 fu riconosciuto come Archaeopteryx dal paleontologo statunitense John Ostrom, del quale riparleremo tra poco; la vecchia denominazione attribuitagli da von Meyer fu del tutto abolita qualche anno più tardi. E’ interessante notare come il descrittore, pur mancando di elementi sufficienti alla formulazione della diagnosi esatta, avesse comunque ritenuto l’animale in questione un rettile volante.

Fino a qualche decennio fa Archaeopteryx, a suo tempo definito dai tedeschi “Urvogel” (qualcosa come “uccello originario”), è stato considerato come una forma di passaggio, anzi la forma di passaggio, tra dinosauri e uccelli moderni: quello che in linguaggio comune viene definito ancor oggi "anello di congiunzione". Questa espressione di stampo giornalistico, che risale addirittura all’800, viene dall’inglese “missing link” (letteralmente “anello mancante”) ed è frutto di una visione superata dell’evoluzione, paragonata a una catena in cui ogni specie discende da quella che l’ha preceduta lungo un singolo percorso regolare, progressivo e privo di diramazioni, le cui tappe sono sempre ben definite e distinguibili con chiarezza. Oggi abbiamo imparato, in particolare dalle numerose scoperte riguardanti gli Ominidi nostri antenati, che il processo evolutivo è invece assai più intricato e complesso e se volessimo rappresentarlo graficamente dovremmo ricorrere a un modello non a catena ma “a cespuglio”, dalle ramificazioni imprevedibili, capricciose e non sempre facilmente interpretabili. Proprio riguardo al nostro argomento, per esempio, vedremo alla fine di questa chiacchierata come in base a scoperte di nuovi fossili la posizione dell’Archaeopteryx abbia subìto due autorevoli revisioni in soli due anni, l’una in senso opposto all’altra!

09_2013-10-10_Archaeopteryx_Milano ed(4)-c (Medium) Calco dell’esemplare di Berlino, Museo civico di storia naturale di Milano.

Poiché la transizione tra rettili e uccelli è comunque acquisita e ben documentata – il dubbio non è se gli uccelli discendano dai dinosauri, ma soltanto dove porre l'eventuale confine tra gli uni e gli altri – ancora più interessante di tale dettaglio ci sembra il discorso evoluzionistico di carattere generale: che origine hanno le piume, e le penne da esse derivate? E come si è sviluppato il volo degli uccelli?

Sulla prima questione i paleontologi sono sempre stati pressoché concordi: le piume, ritrovate negli ultimi decenni presso interi gruppi di dinosauri, sono squame altamente modificate per svolgere nuove funzioni e l’ipotesi universalmente accettata è che si siano sviluppate per favorire l’isolamento termico, cioè per trattenere il calore corporeo. Questo spiega anche perché fossero presenti soprattutto in specie di piccole dimensioni, dato che il minor volume favorisce la dispersione di calore (altrettanto importante annotare, per i motivi che vedremo tra poco, come i piccoli dinosauri piumati e pennuti fossero tutti carnivori e come tali si muovessero in posizione eretta sugli arti posteriori, in cui le dita, dirette in avanti, erano ridotte a tre). Non avrebbero avuto bisogno di piume, invece, le specie dal corpo più grande o addirittura gigantesco, le quali possedevano quella che viene definita una maggiore “inerzia termica”: in parole povere, impiegavano più tempo per riscaldarsi con il calore solare ma anche per raffreddarsi.

Nel 1964, una specifica scoperta diventò il punto di partenza per una profonda revisione dei concetti tradizionali sulla fisiologia dei dinosauri, innescando controversie che videro gli specialisti intavolare un accesissimo dibattito scientifico. Nell’estate di quell’anno il già ricordato paleontologo John Ostrom, dell’università di Yale, durante una campagna di ricerche nel Montana fece un ritrovamento straordinario: lo scheletro di un dinosauro carnivoro che nonostante le non grandi dimensioni (alto intorno ai 90 cm, misurava non più di 3 m dal muso alla punta della coda) doveva essere stato un predatore estremamente attivo. Lo indicavano numerosi particolari: i denti acuminati, il collo flessibile che assicurava grande mobilità alla testa, le orbite molto vaste che suggerivano grandi occhi e vista eccellente; le zampe posteriori robuste, lunghe e snelle, fatte per correre e le anteriori, che potevano ruotare sul polso ed erano dotate di unghioni adatti ad afferrare e trattenere, oltre che a squarciare; la coda lunghissima, che fasci di tendini mantenevano rigida e orizzontale e che nella corsa svolgeva la funzione di stabilizzatore.

Ma la particolarità che entusiasmò Ostrom era un’arma micidiale mai vista prima: un artiglio a falce, negli adulti lungo fino a 13 cm, sul più interno delle tre dita delle zampe posteriori, che suggeriva come il suo proprietario, una volta balzato sulla preda, dovesse trattenerla con le “mani” e lacerarne le carni mediante tremende sciabolate vibrate con i “piedi”. Gli scavi continuarono, scoprendo altri resti che confermarono e completarono il ritratto dell’animale, vissuto nel Cretaceo inferiore (intorno ai 125 milioni di anni fa): dopo accurati studi e ricostruzioni, lo scopritore gli diede nel 1969 l’appropriato nome di Deinoychus, che significa “terribile unghia”.

Ed eccoci al dunque. Per produrre l’energia necessaria a tali frenetiche tecniche di caccia, il predatore che le impiegava doveva avere un metabolismo quanto mai attivo: incompatibile, dunque, con la visione tradizionale dei dinosauri intesi come animali “pigri” quali i rettili attuali, che per accumulare calore devono esporsi a lungo al sole, rimanendo immobili e quindi inerti per gran parte del loro tempo.

Fu così che a partire dalla fine degli anni ’60 Ostrom, e con ancor maggiore determinazione il suo ex allievo Robert Bakker, ben presto definito “il ragazzo terribile della paleontologia”, sollevarono un vero vespaio. Almeno quel tipo di dinosauri se non tutti, sostennero i due studiosi nelle loro comunicazioni scientifiche, non dovevano essere “a sangue freddo” come i rettili odierni, ma “a sangue caldo” come i mammiferi e gli uccelli: animali, cioè, la cui temperatura corporea non seguiva le variazioni di quella dell’ambiente (ectotermi) ma si manteneva costante indipendentemente dalle condizioni esterne, grazie appunto al metabolismo intenso, che ha come conseguenza la continua produzione di calore (endotermi).

Dal punto di vista anatomico, purtroppo i fossili non conservano testimonianze dirette dell’endotermia. Questa implica la presenza di un cuore a quattro cavità del tutto separate, con una circolazione doppia (cuore-polmoni-cuore e cuore-tessuti-cuore) e completa (in cui il sangue arterioso non si mescola con quello venoso): struttura che manca ai rettili odierni ed è purtroppo impossibile a riconoscersi in un fossile (i paleontologi possono tentare di dedurne l’esistenza solo indirettamente, mediante l’esame di altre caratteristiche conservate dai reperti, quale per esempio la struttura microscopica dei tessuti ossei). In compenso i fossili, che mostrano come quei piccoli dinosauri fossero piumati e pennuti, costituiscono di per sé la più importante testimonianza indiretta del fatto che si trattasse di animali endotermi. La trasformazione delle squame in piume ai fini dell’isolamento termico, infatti, era per loro di capitale importanza, mentre sarebbe stata del tutto inutile in un rettile a sangue freddo.

In un secondo momento, sugli arti anteriori e sulla coda le piume acquisirono dimensioni maggiori e si irrobustirono diventando penne; si presume che questa loro modificazione sia avvenuta per assolvere la funzione di timoni, facilitando rapidi cambiamenti di direzione durante l'inseguimento delle prede (non abbiamo ancora detto che questi piccoli dinosauri carnivori erano parenti stretti del successivo Deinonychus, il quale probabilmente era anch’esso piumato e pennuto). A una maggior rapidità e mobilità contribuirono anche, con la loro leggerezza, le ossa diventate cave, altra modifica strutturale di capitale importanza che passerà agli uccelli; mentre come avviene in questi ultimi, le piume e le penne, colorandosi, dovettero incominciare a svolgere anche la funzione di comunicazione visiva e riconoscimento tra gli individui.

(In proposito eccovi ancora una curiosità: l’Archaeopteryx è stato spesso raffigurato con piumaggi di tutti i colori possibili, ma nel 2011 gli scienziati, usando la microscopia elettronica a scansione e la tecnica della fluorescenza a raggi X con dispersione energetica, sono riusciti a risalire alle sostanze che determinavano i colori dell'Archaeopteryx, concludendo che le sue piume e penne erano nere. Due dinosauri pennuti cinesi, il Sinosauropteryx e il Confuciusornis, avevano invece livree in cui al nero si alternavano il bianco e l’arancione).

10_Archaeopteryx_NT_Wikimedia Ricostruzione di Archaeopteryx.(Foto: Wichimedia-Nobu Tamura)

Su altre particolarità anatomiche dei predecessori degli uccelli, per esempio nel “braccio”, nella “mano” e nella coda, crediamo non sia il caso di dilungarci oltre, perciò (scusate l’involontaria battuta) sorvoliamo; l’importante è che a questo punto delle loro vicende, quegli animali si trovavano provvisti di caratteristiche la cui ulteriore possibile accentuazione, dietro eventuali spinte evolutive frutto di questa o quella pressione ambientale, avrebbe potuto portare al volo: come di fatto avvenne. Siamo di fronte a un caso estremamente significativo di quello che in termini evoluzionistici era un tempo definito “preadattamento” (concetto che sembrando implicare una sorta di finalismo, assente nell’evoluzione, fu criticato e corretto dal grande biologo, zoologo e paleontologo statunitense Stephen Jay Gould e dalla sua scuola, i quali ribattezzarono simili complessi di circostanze – ricorrenti nella storia della vita – col termine di “exaptation”). Quanto alla collocazione cronologica di questi eventi, il passaggio da un gruppo di dinosauri pennuti ai veri e propri progenitori degli uccelli – accompagnato da una loro grande diversificazione – dovette avvenire nel Medio-Tardo Giurassico, tra i 165 e i155 milioni di anni fa.

11_Museo Berlino_7325-c (Medium)Una ricostruzione a grandi linee del grado di parentela tra i gruppi di Vertebrati, dai Pesci ai Mammiferi, illustrato secondo il moderno metodo della cladistica. I diversi gruppi sono rappresentati con segmenti divergenti dal ramo comune, là dove se ne è distaccato il più antico rappresentante noto del ramo derivato. Il ramo comune è quello che va da sinistra in basso verso la destra in alto; le cifre indicano i milioni di anni trascorsi dal distacco. Museo di Berlino.

Forte di questi e altri argomenti, scaturiti da un’interpretazione nuova e senza preconcetti dei reperti fossili, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso Bakker mise in subbuglio il campo della paleontologia, giungendo a conclusioni tali da scuotere dalle fondamenta le convinzioni dei più insigni studiosi tradizionalisti: gli uccelli odierni non “discendono” dai dinosauri, gli uccelli odierni “sono” dinosauri a tutti gli effetti, anche se appartenenti a un gruppo molto specializzato, l'unico sopravvissuto all'estinzione di massa dei suoi parenti avvenuta alla fine del Mesozoico, intorno ai 65 milioni di anni or sono.

Ma torniamo alle origini del volo, sulle quali le opinioni degli specialisti si dividono. Al riguardo i paleontologi hanno formulato infatti due distinte teorie (questa volta sì nel senso di ipotesi), entrambe plausibili ed entrambe sostenute da studiosi autorevoli, dette teoria arborea (chiamata anche "tree-down", ossia letteralmente "giù dagli alberi") e teoria cursoriale (chiamata anche "ground-up", ossia "su da terra"). Ci limitiamo ad accennarvi in breve, riferendo come entrambe abbiano sia buoni argomenti a loro favore, sia aspetti non ancora giustificati dai fossili.

12_Archeopteryx harder 1906 Una tavola di Heinrich Harder, 1906. ( Link fonte dell’immagine)

Secondo la teoria arborea, i piccoli dinosauri piumati e pennuti avrebbero incominciato ad arrampicarsi sugli alberi, probabilmente inseguendo le loro prede, per poi imparare a saltare su di esse dall'alto, fino ad acquisire la capacità del volo planato; la teoria cursoriale prevede invece che quei progenitori degli uccelli avessero sviluppato un tipo di corsa aiutato dal battito degli arti anteriori provvisti di penne, movimento coordinato che avrebbe consentito dapprima salti più prolungati e successivamente piccoli voli. Come è avvenuto negli ultimi anni per altri aspetti della vita sulla Terra grazie alle scoperte di nuovi fossili e alle moderne tecnologie di studio dei medesimi, c’è da sperare che prima o poi anche questo dilemma posa essere risolto.

Terminiamo con un’altra curiosità, la più cospicua tra tutte quelle che abbiamo ricordato. Chi non avesse mai seguito, nell’ambito di questo o quel campo delle scienze naturali, la discussione di un argomento appena minimamente complesso, potrebbe stupirsi di come la visione degli specialisti esprima spesso ipotesi di lavoro diverse e sia soggetta a incessanti revisioni, che spesso costringono ad abbandonare del tutto le interpretazioni precedenti. Anziché costituire motivo di sfiducia nei confronti dei naturalisti in generale e dei paleontologi in particolare, questo continuo aggiornamento va riconosciuto come l’essenza stessa della scienza, il cui compito è di formulare ipotesi dimostrabili volte a spiegare la realtà fisica, mantenendo la disponibilità ad abbandonarle non appena se ne presentassero di più valide.

Non dimentichiamo che presentare come contraddizioni dell’evoluzionismo le diverse interpretazioni dei ritrovamenti, o gli aggiustamenti delle posizioni da parte degli studiosi in base a nuove scoperte, è una delle tecniche più usate (e più disoneste) dei creazionisti.

Dal web, 2011. “Recenti ritrovamenti avvenuti in Cina di un fossile con tracce di piume intorno alle ossa stanno mettendo in discussione i vari ricercatori sul fatto che l’Archaeopteryx sia di fatto alla base dell’albero evolutivo degli uccelli. Questo nuovo ritrovamento, battezzato Xiaotingia zhengi, ha all’incirca 155 milioni di anni e possiede numerose caratteristiche in comune con Archaeopteryx, tra cui un artiglio sul secondo dito del piede per cacciare e lunghi, robusti arti superiori per planare. Tuttavia, quando il professor Xing Xu, dell'Accademia delle Scienze cinese, ha condotto con la sua équipe un’analisi filogenetica comparando le caratteristiche anatomiche del nuovo fossile con quelle dell’ Archaeopteryx e di altri esemplari appartenenti al gruppo dei Paraves (che comprende i sottogruppi degli uccelli e di dinosauri strettamente imparentati), hanno dedotto che Xiaotingia non è un uccello ma un dinosauro piumato. Questo fatto ha aperto una discussione tra gli studiosi sulla posizione filogenetica dell’Archaeopteryx relegandolo a dinosauro con le piume”.

Dal web, 2013. “Per le sue caratteristiche anatomiche, intermedie tra quelle di un dinosauro e di un uccello, Archaeopteryx è stato considerato come l'uccello più antico e primitivo, cioè una delle prime specie del clade (=raggruppamento) degli Avialae. Questa sua collocazione era però stata messa in discussione dalla scoperta, pubblicata due anni fa, di Xiaotingia zhengi, una specie di dinosauro teropode dotato di penne e di caratteristiche simili ad Archaeopteryx (…) In sintesi, Archaeopteryx non era da considerare  un antenato degli uccelli, ma solo una specie con caratteristiche miste, poi estinta, appartenente a un altro clade. Ma il paleontologo Pascal Godefroit, del Regio istituto belga di Scienze naturali e colleghi di varie nazionalità riferiscono ora della scoperta, sempre in Cina, di un nuovo dinosauro dotato di penne originario del Medio-Tardo Giurassico, che hanno battezzato Aurornis xui. L'analisi delle caratteristiche anatomiche conferma che sia Aurornis xui sia Archaeopteryx appartengono al clade degli Avialae e che Archaeopteryx rappresenta uno dei più antichi punti di divergenza all'interno di questo clade”. In parole povere, come titola il sito, “la rivincita di Archaeopteryx”, che torna a essere considerato un vero “Urvogel”, sia pure di poco meno antico del suo cugino Aurornis.

Verso la fine di questa chiacchierata avrete incontrato qua e là termini specialistici della sistematica, che ho dovuto citare ma nel cui merito non ho ritenuto il caso di entrare: teropodi, Avialae, clade, Paraves; e se vi verrà voglia di approfondire l’argomento ne incontrerete altri a bizzeffe, come maniraptora, Deinonicosauri, Celurosauri, Tetanuri, eccetera. Li ho saltati tutti a piè pari, cercando di mirare al nocciolo del discorso”.

Giancarlo Colombo

 

Fin qui il nostro amico, che ringrazio. Da parte mia mi limito a concludere con un paio di annotazioni personali.

Uno: per chi come me è appassionato di ornitologia, pensare che gli uccelli moderni sono in realtà dinosauri viventi fa un certo effetto!

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E’ difficile sottrarsi alla suggestione che nel fiero sguardo di questo Sparviere (Accipiter nisus) sia rimasto qualcosa delle sue antiche origini di dinosauro.

 

 

 

 

 

 

Due: il fossile di Archaeopteryx di Berlino, esposto con eccezionali misure di sicurezza (è protetto da uno spesso cristallo come La Gioconda di Leonardo), è uno spettacolo che non dimenticherò mai.

14_Museo Berlino_7297 c (Medium)Ingresso della sala del Museo berlinese in cui è esposto l’Archaeopteryx.

 

A mo’ di conclusione eccovi tre ultime curiosità, riguardanti la numismatica, la filatelia e il costume.

Nel 2011, centocinquantesimo anniversario della scoperta dell’Archaeopteryx, la Germania ha dedicato al fossile una moneta commemorativa del valore di 10 euro. Sul verso l’immancabile stoccatina nazionalistica.15-euro-2011-in-argento-Archaeopteryx-Germania-16-g-300x150

Dritto: La rappresentazione dell’esemplare di Berlino. Verso: l’aquila germanica. (Informazioni sulla moneta: Link)

L’11 agosto 2011, al celeberrimo reperto è stato dedicato anche un francobollo, del valore di 0,55 Euro.

germany_2011Francobollo tedesco raffigurante l’Archaeopteryx. (Informazione sul francobollo: Link)

Infine, che l’Archaeopteryx sia straordinariamente interessante nessuno lo mette in dubbio; non tutti, però, lo considereremmo tale al punto di farcelo tatuare sulla schiena. Questa ragazza sarà una fanatica appassionata di paleontologia, o come tanti altri giovani sarà semplicemente in cerca di un momento di facile notorietà?

Eugenia-archaeopteryx-tattoo440 Fonte: discovermagazine

mercoledì 4 dicembre 2013

I ricami dell’inverno: la galaverna

Il dizionario ne dà questa definizione: calaverna o galaverna, brina o nebbia che cristallizza sui rami o sulle foglie formando dei lunghi aghi. In effetti la galaverna è un deposito di ghiaccio in forma di aghi e scaglie che si forma quando la temperatura è sotto lo zero e nell’aria aleggia la nebbia. Questo fenomeno è frequente in montagna, dove capita spesso che la nebbia lasci questo strato di ghiaccio bianco posato sulla vegetazione, rendendo ancor più affascinante il paesaggio. Le immagini che propongo oggi le ho scattate in Engadina, il paesaggio ritratto non è certamente tra i più interessanti ma la galaverna lo ha reso incantevole e fiabesco.

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Ma quali sono le condizioni per far si che questo fenomeno si formi? Curiosando sul web ho trovato questa semplice e chiara descrizione: La galaverna si forma se le goccioline d’acqua in sospensione nell’atmosfera possono rimanere liquide anche sotto zero (il cosiddetto stato di sopraffusione). Uno stato instabile tanto che appena le gocce toccano una superficie solida si trasformano appunto in galaverna. Questo passaggio dallo stato liquido allo stato solido richiede piccole dimensioni delle gocce di nebbia, temperatura bassa, ventilazione scarsa o assente, accrescimento lento e dissipazione veloce del calore latente di fusione.

Se la ventilazione è debole questo accrescimento è regolare e i cristalli sono di notevole bellezza e simmetria, molto simile alla logica dell’esagono che genera il fiocco di neve nelle nubi.

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L’origine del nome calaverna o galaverna è alquanto discusso, per alcuni autori il termine è per metà germanico/longobardo e per metà latino, nebbia (“cala” di “calìgo”) che si congela (“hibernus”), al contrario gli esperti dell’accademia della crusca affermano che la ricerca etimologica ci lascia a tutt’oggi senza una risposta assodata. Di certo, come affermano gli studiosi dell’accademia della crusca, non è scienza, vedere in galaverna una “gala invernale”, come il fisico Ciro Chistoni scrisse: “La galaverna è quasi definita dallo stesso nome: è una specie di addobbo invernale di tutti gli oggetti esposti al libero cielo.”

Per chi volesse approfondire questo intrigante argomento basta cliccare su questo Link

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Altri fenomeni simili alla galaverna sono: la brina, che si forma per il raffreddamento lento del vapore sulle superfici fredde a causa della perdita di calore durante la notte.

12_Brina_Pian di Spagna ed (Large) Brina

La calabrosa invece è un deposito di ghiaccio che si produce per la solidificazione rapida di gocce grosse di nebbia soprafusa. La differenza tra calabrosa e galaverna e’ di carattere estetico l’una con aghi di ghiaccio, l’altra con crosta di ghiaccio granulosa simile a una spugna gelata per via delle bolle d’aria racchiuse nel suo interno. La calabrosa avendo una densità maggiore della galaverna, in particolari condizioni climatiche forma intorno ai rami, delle lame di ghiaccio biancastre irregolari e dentellate, larghe anche 20 centimetri.

calabrosa Calabrosa (foto Flavio Pontiggia)

Altro fenomeno è il gelicidio, che consiste in un deposito di ghiaccio liscio, compatto e molto aderente senza bolle d'aria o altre impurità. Questo fenomeno è provocato da una forte variazione del profilo termico dei vari strati dell’aria, caratterizzato da aria gelida in prossimità del suolo e di aria più calda negli starti più alti. La pioviggine che, a causa della soprafusione, pur cadendo al suolo in forma liquida gela formando a volte accumuli molto pesanti a causa della sua densità.

800px-Ice_Storm_Kansas Gelicidio (link foto)

venerdì 29 novembre 2013

Il venturone alpino: il canarino delle nostre montagne.

Con l’arrivo della stagione invernale, sulle nostre montagne può capitare di fare interessanti osservazioni, come ad esempio imbattersi in gruppetti di piccoli uccelli come i venturoni alpini.

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Venturone alpino, novembre 2013, provincia di Lecco.

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In data 26 aprile 2013 ho pubblicato un articolo relativo al canarino evidenziando gli elementi che lo accomunano ad altri piccoli uccelli della nostra fauna. Vedi articolo.

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Il venturone alpino, che è l’oggetto del post odierno, è conosciuto gergalmente come “canarino di montagna” ma con questa specie ha in comune solo il canto melodioso.

 

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Venturone alpino (sinistra) e Verzellino (destra). 

ll venturone alpino ha abitudini gregarie e spesso lo si osserva in gruppi composti da più individui.

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Questa specie è presente solo in Europa, ha un areale riproduttivo molto ristretto, limitato al piano montano nell’area dove i boschi si fanno più radi. Durante la stagione invernale, il venturone alpino compie degli spostamenti a corto raggio tendenzialmente abbassandosi di quota. Le popolazioni più numerose si trovano sulle Alpi, nei Pirenei e su alcune catene montuose della Spagna settentrionale e centrale.

Areale di nidificazione del venturone alpino in Italia (sopra) e mondiale (sotto) – Mappa tratta da Ornitologia italiana Vol 8. Areale di nidificazione del venturone alpino in Italia (sopra) e mondiale (sotto) – Mappa tratta da Ornitologia italiana Vol 8.

La specie in oggetto non è molto comune ed essendo relegata a particolari habitat alpini non è sempre facilmente osservabile, per tale motivo l’individuazione di questo fringillide è elemento di soddisfazione per qualsiasi appassionato di birdwatching.

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Il ♂ di venturone alpino è contraddistinto da colori vivaci, mentre la ♀ ha toni più tenui.

Una popolazione di venturone vive in Corsica, un tempo era ritenuta conspecifica del nostro venturone alpino, ma recenti studi genetici dei due taxa hanno dimostrato che la specie dell’isola nel tempo ha gradualmente assunto lo status di specie classificata con il nome Venturone corso Carduelis corsicana.

Bibliografia: Brichetti P. & Fracasso G., 2013. Ornitologia Italiana. Vol. 8 – Sturnidae-Fringillidae. Oasi Alberto Perdisia Editore, Bologna.

venerdì 22 novembre 2013

Neve precoce

Così è stata annunciata dagli organi di stampa questa nevicata avvenuta anche a quote relativamente basse sui monti che circondano il Lario. Dal punto di vista meteorologico questo autunno è stato caratterizzato da pioggia e cieli plumbei, era impossibile dunque, non coglie l’opportunità di assaporare le emozioni di questa bella nevicata.

All’Alpe Cainallo di Esino Lario.
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Il silenzio ovattato è interrotto dal richiamo di una cinciallegra infreddolita.7_Cinciallegra (19)c (Medium)
La faggeta imbiancata.8_Cainallo ed(16)c (Medium)
Anche se coperti dalla neve i frutti del faggio sono un ottima dispensa di cibo per molti animali del bosco.
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Un fringuello cerca indaffarato qualche seme sulla neve.
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Per gli animali selvatici la neve potrebbe arrecare qualche problema di reperibilità del cibo, per gli amici dell’uomo è uno spasso rotolarvi dentro.
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