sabato 26 luglio 2014

I rondoni, uccelli nati per volare

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Rondone Apus apus, Varenna (LC)

Era da diversi giorni che i Rondoni (Apus apus) alla sera si rincorrevano in volo formando spettacolari caroselli, segni intangibili della frenesia della partenza. Improvvisamente infatti una notte di fine luglio, tutti i membri dell’unica colonia nidificante a Varenna se ne sono andati, lasciando vuoto quel cielo che da aprile, rappresentava un gioioso pullulare di vita.
Puntuali come tutti gli anni, i Rondoni hanno abbandonano la zona di nidificazione nel corso dell’ultima decade di luglio per ritornarsene in 2_Rondone_Varenna ed(28)Africa.

 

 

 

 

Sotto la copertura di un tetto di Varenna, una colonia di Rondoni, composta da circa una ventina di coppie, da anni porta a termine il suo ciclo riproduttivo.

 

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In questa immagine si scorge un Rondone raggiungere il nido, la foto è stata scattata in Provincia di Sondrio a quota 1900 metri, questo livello altimetrico potrebbe rappresentare il limite massimo altitudinale di un sito riproduttivo.

 

Ho già trattato in precedenza su questo blog (LINK) l’argomento odierno, ma colgo l’occasione della partenza dei Rondoni per divulgare i nuovi sviluppi scientifici riguardanti la loro biologia.


Il Rondone è l’uccello che meglio si è adattato alla vita aerea, vive quasi sempre in volo durante il quale riesce persino a dormire e ad accoppiarsi.
Un tempo si pensava che i rondoni che salivano in cielo la sera, ritornassero a terra al calar delle tenebre, oppure che passassero la notte sulle cime delle alte montagne.
L'ornitologo basilese Emil Weitnauer ha studiato la vita notturna dei rondoni fin nei minimi dettagli, dapprima con un pallone aerostatico, in aereo ed in seguito utilizzando la tecnica radar, giungendo alla conclusione che questa particolare specie era solita dormire durante il volo.

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Un recente studio (LINK) condotto da un gruppo di biologi dell'Istituto svizzero di ornitologia dell'Università di Berna, su alcuni esemplari di Rondone maggiore (Tachymarptis melba) parente stretto del nostro Rondone (Apus apus) ha confermato le valutazioni di Weitnauer.
I ricercatori infatti, hanno dimostrato che alcuni esemplari di Rondone maggiore, muniti di microchip, hanno volato per sei mesi ininterrottamente, senza mai posarsi neppure un istante mantenendo durante questo lungo periodo intatti tutti i loro processi fisiologici compreso il sonno. Con questo risultato si conferma quanto sostenuto da Weitnauer e altri ornitologi.

Personalmente ritengo che questa caratteristica dei Rondoni rappresenti una meraviglia dell’evoluzione grazie alla quale questi uccelli ad oggi hanno completamente conquistato il cielo.

Queste immagini ritraggono il Rondone in volo mostrando la sua straordinaria forma aerodinamica.

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Dal libro: Dove come e perché migrano gli uccelli di Domenico Rossi.

L’evoluzione dell’uccello non si limita alla conquista della possibilità di un rapido spostamento, necessaria affinché la specie sopravvivesse; il volo doveva assumere quel significato particolare che il principio stesso racchiudeva. La conquista dell’aria non poteva ritenersi conclusa fino a quando un essere qualsiasi non si fosse indissolubilmente legato a questo elemento. E’ il caso della famiglia degli Apodiformi, alla quale appartiene il nostro Rondone (Apus a. a.). Questi, infatti, si è distaccato più di ogni altro essere vivente da ogni rapporto terrestre per orientare la sua intera vita nell’aria. (…)

La caratteristica del Rondone di assolvere i compiti impostigli dalla Natura completamente nell’aria, dall’accoppiamento all’alimentazione al riposo e al sonno, fanno di questa specie quella maggiormente adatta ad uno studio approfondito dei rapporti fra essere ed elemento.

Il fatto che il Rondone non tocchi il suolo che per accidenti ci porterebbe quasi a dover considerare il Rondone come appartenente ad una classe più evoluta o addirittura ad una classe che aspirasse ad una qualche indipendenza.

Curiosità:

L’ornitologo Weitnauer, studioso di Rondoni, presso la colonia da lui seguita in Svizzera, ha tenuto monitorato un gruppo di Rondoni tra i quali un individuo inanellato che aveva raggiunto la straordinaria età di 21 anni. Facendo un calcolo approssimativo, questo uccello compiendo circa 600 km al giorno in volo, ha raggiunto un totale di circa 4.600.000 chilometri nel corso dei 21 anni della sua vita, in pratica è come se avesse girato intorno al nostro pianeta per ben 97 volte!

 

Bibliografia:

D. Rossi, Dove, come e perché migrano gli uccelli, Mursia, 1971.

E. Weitnauer, Mein Vogel, 1980.

G. Attorre, Documentazione fotografica sul volo notturno del rondone, 1959.

martedì 22 luglio 2014

Il Fringuello alpino, un uccello dal carattere tenace

Più volte su Libereali abbiamo parlato di specie che vivono in condizioni estreme dell’alta montagna (per esempio la Pernice bianca LINK). Il mese scorso durante un’escursione sulle Alpi lombarde mi sono imbattuto in una coppia di Fringuello alpino per cui ecco un’ottima opportunità per proporvi un post a lui dedicato.

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♂ Fringuello alpino Montifringilla nivalis, giugno, Provincia di Sondrio.

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Prima di tutto facciamo chiarezza sul nome: il Fringuello alpino Montifringilla nivalis non ha nulla a che a vedere con il più comune Fringuello Fringilla coelebs che tutti conosciamo. Quest’ultimo appartiene alla famiglia dei Fringillidae mentre il Fringuello alpino è classificato nella famiglia dei Passeridae (famiglia a cui appartengono i passeri che vivono nei nostri centri abitati). Il Fringuello alpino è un uccello tipicamente di alta quota, osservabile nelle aree montane sopra il limite della vegetazione, caratteristica tale da essere inserita nel suo nome scientifico: Montifringilla=Fringuello dei monti e nivalis=che appartiene alla neve.

 

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Tipico ambiente del Fringuello alpino.
In primo piano uno splendido cuscino di
Silene acaulis.


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Il Fringuello alpino è lungo circa 17 cm con una apertura alare di 34-38 cm. I sessi sono molto simili sebbene la femmina abbia tonalità generali più tenue, caratteri però che spesso non sono distinguibili. Il becco è conico, nero in estate e giallastro in inverno (mentre negli individui più giovani è sempre giallastro). Questa specie è alquanto socievole e spesso la si trova nel periodo non riproduttivo anche in grossi gruppi composti fino ad un centinaio di individui.

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Gruppo di Fringuelli alpini, febbraio, Alpi Svizzere.

 





Gruppo di Fringuelli alpini, marzo, Alpi Svizzere.

 

 

L’areale del Fringuello alpino Montifringilla nivalis è molto ampio e spazia dall'estremo limite orientale dell'Himalaja fino all'Europa occidentale (Pirenei). Tuttavia, data l’ampiezza dell’area in questione, le popolazioni non sono legate tra di loro e nel corso evoluzionistico hanno assunto caratteri diversi a seconda del territorio occupato, malgrado siano ancora fra loro interfeconde. Per questo ne sono nate delle sottospecie e ad oggi se ne contano ben 8:

Montifringilla nivalis nivalis. Linnaeus 1766: Sud dell’Europa fino al nord della Spagna attraversando Corsica, Italia e le Alpi fino ai Balcani e la Grecia.

Montifringilla nivalis leucura. Bonaparte 1855: Sud-est dell’Asia Minore.

Montifringilla nivalis alpicola. Pallas 1831: Caucaso, a nord-ovest e nord dell’Iran, Afghanistan e ad ovest del Pamir.

Montifringilla nivalis gaddi. Zarudny e Loudon 1904: sud ovest dell’Iran.

Montifringilla nivalis tianshanica. Keve 1943: ovest dell’ex-U.R.S.S. , in Asia centrale.

Montifringilla nivalis groum-grzimaili. Zaurudny e Loudon 1904: nord di Sinkiang in Cina, sugli Altai in Russia e a sud-ovest della Mongolia.

Montifringilla nivalis kwnlunensis. Bianchi 1908: sud di (Sinkiang) e nell’area del Nan Shan (nella Cina centrosettentrionale).

Montifringilla nivalis adamsi. Adams 1859: sud-est dell’altopiano del Tibet, da Ladakh (India) ad est di Tsinghai (Cina).

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Areale del Fringuello alpino www.birdguides.com

In Italia il Fringuello alpino Montifringilla nivalis nivalis è presente con due popolazioni ben separate: quella distribuita su tutta la catena alpina e quella dell'Appennino centrale, fino al Gran Sasso e alla Majella.

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Come sottolineato nel titolo del post, il Fringuello alpino ha un carattere tenace, non teme le rigide temperature delle aree montuose dove trascorre anche l’inverno compiendo occasionali erratismi a fondovalle solo per reperire cibo.

 


Gruppo di Fringuelli alpini, febbraio, Provincia di Verona.

 

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Durante la stagione fredda questa specie  è  relativamente socievole ed ha imparato a convivere con l’uomo da cui ne trae beneficio. Queste immagini sono state scattate nel mese di gennaio presso una stazione sciistica a quota 2300 metri.





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I Fringuello alpino nidifica a quote elevate: sugli Appennini sopra i 2100 m, sulle Alpi da quota 2000 a più di 3.500 m s.l.m., (record altimetrico sulle Alpi è stato registrato in Valle d'Aosta, sul Monte Rosa presso la Capanna Gnifetti a 3.647 m s.l.m.-fonte wikipedia) e in Tibet sopra i 5300 m. (fonte snowfinch).

Il nido, a forma di coppa, è costruito in anfratti di rocce o edifici. Qui vengono deposte 4-5 uova bianche che la femmina cova per 13-14 giorni. I giovani restano nel nido per circa 20 giorni.

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Un adulto di Fringuello alpino dalla sua postazione protegge il nido da eventuali pericoli.

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Questo uccello si alimenta quasi sempre al suolo: in primavera ed estate si ciba soprattutto di invertebrati e di semi; in inverno soprattutto di semi che raccoglie dalla vegetazione posta sulle ripide pareti di roccia dove resta libera dalla neve per via della pendenza. Durante questa stagione, il Fringuello alpino è solito frequentare i rifugi e le stazioni turistiche. In primavera preferiscono le aree soleggiate per procurarsi invertebrati nei pendii dove è presente neve. Molti insetti, infatti sono trasportati dal vento sui nevai dove rimangono immobili sulla superficie.

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Una femmina di Fringuello alpino che ha appena catturato un insetto per i propri pulcini.

 

 

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Anche ai meno esperti non passa inosservato: in volo sono ben evidenti ali e coda, in gran parte bianche.

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Disegno tratto da Alpine Ornithologie, 1955

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La sua tenacia è data dalla sua permanenza in altitudine anche nei mesi invernali adattandosi alle rigide temperature a differenza di altre specie. Infatti in estate il Fringuello alpino condivide l’ambiente montano con altre specie di uccelli come ad esempio lo Spioncello Anthus spinoletta, il Codirosso spazzacamino Phoenicurus ochruros e il Sordone Prunella collaris. Questi però, con le prime nevi, scendono a fondovalle o migrano a breve distanza o addirittura migrano in Africa come il caso del Culbianco Oenanthe oenanthe, migrazione particolare di cui parlerò in un prossimo post.

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Spioncello Anthus spinoletta, giugno, Provincia di Sondrio.

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Codirosso spazzacamino Phoenicurus ochruros, giugno, Provincia di Sondrio.

Sono strategie diverse che grazie all’evoluzione della singola specie hanno portato ad una straordinaria adattabilità. L’adattarsi non appartiene solo al mondo alato. Nell’ambiente del Fringuello alpino convivono la Marmotta Marmota marmota, che in inverno va in letargo nella sua tana, e l’Ermellino Mustela erminea, che sostituisce la pelliccia rendendola bianca restando attivo tutta la stagione.

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Marmotta Marmota marmota, giugno, Provincia di Sondrio.

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Ermellino Mustela erminea, giugno, Provincia di Sondrio.

E così la sua tenacia lo lascerà sentinella delle Alpi anche durante il prossimo inverno quando lo ritroveremo lì anche se tutto sarà ricoperto da una coltre di neve.

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Bibliografia:

Moltoni E., 1946, L’etimologia ed il significato dei nomi volgari e scientifici degli uccelli italiani – Milano

Brichetti P. & Fracasso G., 2013. Ornitologia Italiana, Vol. 8 – Sturnidae-Fringillidae. Oasi Alberto Perdisia Editore, Bologna.

De Ritis S., Fauna Appenninica D'Altitudine, Fringuello alpino Montifringilla nivalis. www.snowfinch.it

Sito Web

http://snowfinch.eu/


venerdì 11 luglio 2014

Smergo maggiore: nidificazione 2014

Come per gli anni passati, sul blog Libereali LINK propongo i dati riguardanti il censimento sulle nidificazioni dello smergo maggiore avvenute sul territorio lariano:

Tratto Varenna-Bellagio-Lecco: 10 nidiate per un totale di 72 pulcini

Tratto Bellagio-Tremezzo-Como: 5 nidiate per un totale di 44 pulcini

Tratto Varenna-Tremezzo-Colico: 6 nidiate per un totale di 40 pulcini

In totale sul Lario sono state osservate 21 nidiate per un totale complessivo di 156 pulcini e 77 smerghi maggiori adulti, tutti i maschi tranne uno, sono migrati altrove per sostituire il piumaggio.

Di notevole importanza è stato il ritrovamento di una femmina con ben 16 pulcini al seguito. In bibliografia il numero di uova deposte dallo smergo maggiore varia da 8-11 (4-13); covate di 14 uova o superiori sono dovute a deposizioni di più femmine.1_2014-06-14_Smergo maggiore 16_Varenna ed(5)

Di seguito alcuni scatti realizzati durante il censimento e nei giorni seguenti.

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Una femmina con i pulcini alle prime luci dell’alba, Colico (LC).

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Femmina con cinque pulcini di pochi giorni, Varenna (LC).

 

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Femmina con pulcini di circa 25 giorni, Varenna (LC).

 

 

 

 

 

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I pulcini di smergo maggiore, come le altre specie di anatre, sono nidifughi, ovvero, appena nati, sono in grado di nuotare e apprendere dai genitori cosa mangiare. I genitori devono “solo” proteggerli dai predatori. Nella foto un pulcino che immerge la testa alla ricerca del cibo.

 

 

 

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Al contrario delle altre anatre, lo smergo maggiore ha l’abitudine di sostare fuori dall’acqua.

 

 

 

 

 

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I riflessi sull’acqua fanno da cornice.

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Gli smerghi maggiori sono degli ottimi volatori, non esitano a spiccare il volo al primo segnale di pericolo.

 

 

 

 

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Fonte dei dati sul censimento Cros-Varenna

venerdì 4 luglio 2014

Aegosoma scabricorne, seconda parte: occhi grandi e corna di capra

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Aegosoma scabricorne, femmina. Varenna, 4 agosto 2013.

 

Roberto mi chiedeva da tempo il testo di questo post, le cui foto ha scattato l’estate scorsa. Se una parte del ritardo nella pubblicazione è dovuto al fatto che lui stesso ha preferito dare la precedenza ad altri soggetti, almeno l’ultimo paio di mesi sono senz’altro colpa mia. Ne chiedo scusa a lui e a voi, ma credo di avere una giustificazione al mio tirare per le lunghe: l’argomento di oggi, l’importantissima famiglia dei Cerambìcidi, è talmente vasto e vario che per entrare nel discorso ho provato più di una partenza, senza esserne mai soddisfatto.

Per non indugiare oltre sarà meglio ricorrere all’esordio più semplice, incominciando dalla spiegazione del nome. I Cerambicidi sono detti anche Longicorni, con evidente riferimento alle lunghe antenne che costituiscono la più vistosa delle loro caratteristiche; se questo secondo termine non ha bisogno di essere chiarito, le origini e il significato del primo richiedono invece una divagazione piuttosto lunghetta, che però offre al curioso più di uno spunto interessante.

In italiano, la parola Ceràmbice senza altre specificazioni indica la più grande e maestosa tra le specie nostrane, il Ceràmbyx cerdo, che può raggiungere i sei centimetri (con maggior completezza è chiamato, dall’albero su cui vive, ‘Cerambice della quercia’): di forma snella ed elegante, indossa una livrea di un nero lucido zigrinato che sulla punta delle elitre volge al rossiccio e le sue antenne, nella femmina lunghe quanto il corpo, possono superarne di molto la lunghezza nel maschio.

 

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Maschio di Cerambyx cerdo. Da Guida agli Insetti di Gabriele Pozzi, F.lli Fabbri Editori, 1977.
A sinistra e a destra abbozzi in nero della pupa e della larva.

 

A creare il genere Cerambyx fu nel 1758 il solito Linneo, che traspose in forma latina un nome ripreso da una leggenda dell’antica Grecia. Secondo la favola, che qui riduco ai minimi termini, il pastore Kérambos (Cerambo), avendo insolentito le Ninfe, divinità minori legate alla natura, per punizione fu da loro trasformato nel coleottero chiamato kerámbyx.

Stando al racconto, cerambice verrebbe dunque da Cerambo. In realtà è esattamente il contrario: l’arrogante pastore e la sua vicenda furono sicuramente inventati per giustificare il nome dell'insetto, certo usato dalle genti di Grecia fin da tempi immemorabili. E' un esempio di quel tipo di mito, comune a tutte le culture del mondo, che gli specialisti chiamano eziologico: una spiegazione in chiave fantastica delle cause o delle origini altrimenti sconosciute di qualcosa, in questo caso del termine kerámbyx, di derivazione ignota. Si tratta di una parola composta e mentre tuttora non sappiamo quale ne sia il senso complessivo e da dove arrivi la seconda metà, almeno sulla prima non abbiamo dubbi: ci si ritrova la radice di kéras, corno.

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Le antenne della femmina di Aegosoma misurano intorno ai 2/3 della lunghezza del corpo, mentre quelle del maschio la superano di poco (vedi il disegno più avanti).

 

Se non altro veniva ritenuta ovvia, fino a poco tempo fa, l'identità del coleottero, a proposito del quale tutti i vocabolari di greco antico riportano la traduzione “cerambice”. Ma alcuni anni addietro, uno studioso di classici ha proposto un'interpretazione diversa, sostenuta da argomentazioni molto convincenti; e almeno per quanto mi riguarda, vi garantisco che la sorpresa è stata maiuscola. Quello che i Greci chiamavano kerámbyx sarebbe non il Longicorne, ma il cervo volante! Per non andare troppo fuori tema, però, rinvio il seguito al futuro post in cui Roberto prima o poi ci regalerà qualche bella immagine di un “cornabò”, come lo chiamavano i nostri contadini.

Abbiamo detto che i Cerambicidi sono una delle più importanti famiglie di Coleotteri, contando oltre 30.000 specie sinora classificate nel mondo, circa 280 delle quali sono presenti nel nostro paese. Anche se un certo numero di loro attacca erbe o piante non legnose, la maggior parte sono xilofaghe: le larve, come già annotato nella prima parte di questo post, si sviluppano cioè nel legno di alberi e arbusti, vivi o morti. In ogni caso vengono definite monòfaghe quando sono legate a una sola specie vegetale e polìfaghe quando possono attaccarne diverse, a volte anche lontane tra loro dal punto di vista botanico. Si è visto che le larve dei Longicorni hanno un ruolo di primaria importanza negli ecosistemi forestali, in qualità di trasformatrici e riciclatrici del legno; quanto agli adulti, quasi tutti in grado di volare (ma esistono anche specie con ali ridotte o mancanti), poiché molti di loro amano le sostanze zuccherine e frequentano i fiori svolgono un ruolo altrettanto importante in qualità di insetti prònubi, cioè impollinatori.

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Si noti come la livrea dell’insetto risulti estremamente mimetica, confondendosi con la corteccia per omocromìa (= stesso colore).

Le loro dimensioni vanno da pochi millimetri fino alla stazza strabiliante di quello che è il più grande in assoluto tra tutti i Coleotteri: vive nelle foreste del Sud America e gli è stato dato l’appropriato nome di Titanus giganteus. Gli antichi autori affermavano che potesse toccare addirittura i venti centimetri; e se per molto tempo questa valutazione è stata ritenuta esagerata (i siti Internet riportano un massimo tra i 16 e i 17), grazie a una testimonianza diretta posso assicurarvi che lo è meno di quanto si pensasse. Alcuni anni fa, un mio conoscente ha misurato di persona una coppia di esemplari conservati presso l’università brasiliana di Manaus in Amazzonia e mi ha riferito che mentre il maschio tocca i 18 centimetri, la femmina – nei Cerambicidi spesso più grande – raggiunge addirittura i 19.

E veniamo al soggetto delle foto, l’Aegosoma scabricorne, uno dei più vistosi Longicorni di casa nostra potendo superare i cinque centimetri. Fa parte della sottofamiglia dei Prionini, la stessa cui appartiene il Titanus, che comprende i Cerambicidi più grandi e robusti; in tutto il mondo ne sono state sinora descritte circa 1200 specie, di cui cinque presenti in Italia (tra questi il Prionus coriarius, che ha dato nome all’intero gruppo e l’Ergates faber, del quale una coppia è stata raffigurata nella prima parte del post LINK).

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Un maschio di Prionus coriarius (24-45 mm), la specie che ha dato nome alla sottofamiglia dei Prionini (Prioninae). Da W. Harde – F. Severa, Der Kosmos-Käferführer, Franck’sche Verlagshandlung, Stuttgart 1981.

 

 

 

 

 

 

Visto che ci siamo occupati di etimologie, diciamo che il nome del genere Aegosoma viene dal greco e significa “dal corpo (cioè aspetto) di capra”, per via delle lunghe antenne che ricorderebbero le corna del mammifero; mentre il nome della specie, scabricorne, è latino e indica come le stesse siano fittamente ricoperte di minuscole asperità. Tale caratteristica, molto pronunciata nel maschio, è assai meno marcata nella femmina, sesso cui appartiene l’individuo fotografato da Roberto. Sull’aspetto del maschio riportiamo l’antico disegno già comparso nella prima parte del post.

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Maschio di Aegosoma.
Da “Il libro dei Coleotteri” di Achille Griffini, Hoepli, 1896.

 

 

 

 

 

La specie fu classificata nel 1763 dall’entomologo trentino Giovanni Antonio Scopoli, uno dei primi e più illustri seguaci di Linneo, che la battezzò Cerambyx scabricornis. Più tardi, il genere Cerambyx – divenuto ormai troppo vasto ed eterogeneo – venne suddiviso in numerosi altri e il nostro scabricornis diventò Megopis (nome che significa “dai grandi occhi”, altra particolarità molto evidente nell’insetto). Aegosoma fu dapprima considerato un sottogenere di Megopis, mentre oggi ne è stato separato come genere a sé stante.

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Questa visione laterale mette in evidenza, alla base delle antenne, i “grandi occhi” a forma di fagiolo – composti di molte unità, come nella maggior parte degli insetti – che valsero al coleottero il vecchio nome di Megopis.

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E a proposito di occhi, quelli di un osservatore non esercitato difficilmente avvisterebbero l’Aegosoma fermo sul ramo…

Come abbiamo già visto nella prima parte, le larve dell’Aegosoma attaccano le parti malate o morte di alberi in via di deperimento e sono eminentemente polifaghe, sviluppandosi a spese delle più svariate latifoglie: querce, noci, faggi, olmi, pioppi, aceri, pruni, peri, ciliegi, ontani, salici, tigli, platani, ippocastani. La vita larvale dura almeno tre anni e il coleottero è a comparsa tardiva, trasformandosi da pupa in adulto già in primavera o all’inizio dell’estate ma poi rimanendo a lungo inattivo nella celletta in cui ha compiuto la metamorfosi, per uscire all’aperto solo in luglio e agosto. Come molti altri Longicorni, questa specie ha abitudini crepuscolari e notturne e durante il giorno gli adulti stanno rintanati sotto le cortecce sollevate o nelle cavità dei vecchi tronchi.

Dal punto di vista morfologico, cioè delle forme, le femmine della specie presentano una caratteristica insolita. Nella stragrande maggioranza dei Cerambicidi l’ovopositore, organo a forma di tubetto che viene infilato nelle screpolature delle cortecce per la deposizione delle uova, quando non è in funzione è tenuto ritirato all’interno del corpo; nell’Aegosoma invece è quasi sempre visibile, sporgendo in permanenza da sotto le elitre all’estremità posteriore dell’insetto. Nonostante quanto affermano molti testi, non si tratta però di un ovopositore esterno: talora – anche se di rado – rimane del tutto nascosto nell’addome, come si può osservare proprio nell’esemplare fotografato da Roberto. Personalmente ho un’ipotesi al riguardo, che vi sottopongo con beneficio di inventario: l’organo è estroflesso al momento della prima deposizione di uova, dopo la quale non viene più ritirato.

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…mentre sarebbe più facile vederlo là dove il muschio ricopre il tronco.

Salvo errore, una tale circostanza non è riportata in nessuno dei testi scientifici in mio possesso, come nel caso di un’altra mia osservazione personale sui Prionini (riguardo all’insolita posizione e funzione delle zampe anteriori prima dell’uscita all’aperto dell’insetto adulto). Anni fa, quando la segnalai a diversi colleghi tra cui uno dei migliori specialisti italiani di Cerambicidi, destai lo stupore generale: a quanto pare, la situazione da me riferita era sinora sfuggita ai naturalisti. Ancor oggi, due secoli e mezzo dopo la nascita della moderna entomologia, della stragrande maggioranza degli insetti già classificati – persino nella vecchia Europa, senza parlare della miriade di specie tropicali – conosciamo a malapena l’aspetto.

Giancarlo Colombo