Aegosoma scabricorne, femmina. Varenna, 4 agosto 2013.
Roberto mi chiedeva da tempo il testo di questo post, le cui foto ha scattato l’estate scorsa. Se una parte del ritardo nella pubblicazione è dovuto al fatto che lui stesso ha preferito dare la precedenza ad altri soggetti, almeno l’ultimo paio di mesi sono senz’altro colpa mia. Ne chiedo scusa a lui e a voi, ma credo di avere una giustificazione al mio tirare per le lunghe: l’argomento di oggi, l’importantissima famiglia dei Cerambìcidi, è talmente vasto e vario che per entrare nel discorso ho provato più di una partenza, senza esserne mai soddisfatto.
Per non indugiare oltre sarà meglio ricorrere all’esordio più semplice, incominciando dalla spiegazione del nome. I Cerambicidi sono detti anche Longicorni, con evidente riferimento alle lunghe antenne che costituiscono la più vistosa delle loro caratteristiche; se questo secondo termine non ha bisogno di essere chiarito, le origini e il significato del primo richiedono invece una divagazione piuttosto lunghetta, che però offre al curioso più di uno spunto interessante.
In italiano, la parola Ceràmbice senza altre specificazioni indica la più grande e maestosa tra le specie nostrane, il Ceràmbyx cerdo, che può raggiungere i sei centimetri (con maggior completezza è chiamato, dall’albero su cui vive, ‘Cerambice della quercia’): di forma snella ed elegante, indossa una livrea di un nero lucido zigrinato che sulla punta delle elitre volge al rossiccio e le sue antenne, nella femmina lunghe quanto il corpo, possono superarne di molto la lunghezza nel maschio.
Maschio di Cerambyx cerdo. Da Guida agli Insetti di Gabriele Pozzi, F.lli Fabbri Editori, 1977.
A sinistra e a destra abbozzi in nero della pupa e della larva.
A creare il genere Cerambyx fu nel 1758 il solito Linneo, che traspose in forma latina un nome ripreso da una leggenda dell’antica Grecia. Secondo la favola, che qui riduco ai minimi termini, il pastore Kérambos (Cerambo), avendo insolentito le Ninfe, divinità minori legate alla natura, per punizione fu da loro trasformato nel coleottero chiamato kerámbyx.
Stando al racconto, cerambice verrebbe dunque da Cerambo. In realtà è esattamente il contrario: l’arrogante pastore e la sua vicenda furono sicuramente inventati per giustificare il nome dell'insetto, certo usato dalle genti di Grecia fin da tempi immemorabili. E' un esempio di quel tipo di mito, comune a tutte le culture del mondo, che gli specialisti chiamano eziologico: una spiegazione in chiave fantastica delle cause o delle origini altrimenti sconosciute di qualcosa, in questo caso del termine kerámbyx, di derivazione ignota. Si tratta di una parola composta e mentre tuttora non sappiamo quale ne sia il senso complessivo e da dove arrivi la seconda metà, almeno sulla prima non abbiamo dubbi: ci si ritrova la radice di kéras, corno.
Le antenne della femmina di Aegosoma misurano intorno ai 2/3 della lunghezza del corpo, mentre quelle del maschio la superano di poco (vedi il disegno più avanti).
Se non altro veniva ritenuta ovvia, fino a poco tempo fa, l'identità del coleottero, a proposito del quale tutti i vocabolari di greco antico riportano la traduzione “cerambice”. Ma alcuni anni addietro, uno studioso di classici ha proposto un'interpretazione diversa, sostenuta da argomentazioni molto convincenti; e almeno per quanto mi riguarda, vi garantisco che la sorpresa è stata maiuscola. Quello che i Greci chiamavano kerámbyx sarebbe non il Longicorne, ma il cervo volante! Per non andare troppo fuori tema, però, rinvio il seguito al futuro post in cui Roberto prima o poi ci regalerà qualche bella immagine di un “cornabò”, come lo chiamavano i nostri contadini.
Abbiamo detto che i Cerambicidi sono una delle più importanti famiglie di Coleotteri, contando oltre 30.000 specie sinora classificate nel mondo, circa 280 delle quali sono presenti nel nostro paese. Anche se un certo numero di loro attacca erbe o piante non legnose, la maggior parte sono xilofaghe: le larve, come già annotato nella prima parte di questo post, si sviluppano cioè nel legno di alberi e arbusti, vivi o morti. In ogni caso vengono definite monòfaghe quando sono legate a una sola specie vegetale e polìfaghe quando possono attaccarne diverse, a volte anche lontane tra loro dal punto di vista botanico. Si è visto che le larve dei Longicorni hanno un ruolo di primaria importanza negli ecosistemi forestali, in qualità di trasformatrici e riciclatrici del legno; quanto agli adulti, quasi tutti in grado di volare (ma esistono anche specie con ali ridotte o mancanti), poiché molti di loro amano le sostanze zuccherine e frequentano i fiori svolgono un ruolo altrettanto importante in qualità di insetti prònubi, cioè impollinatori.
Si noti come la livrea dell’insetto risulti estremamente mimetica, confondendosi con la corteccia per omocromìa (= stesso colore).
Le loro dimensioni vanno da pochi millimetri fino alla stazza strabiliante di quello che è il più grande in assoluto tra tutti i Coleotteri: vive nelle foreste del Sud America e gli è stato dato l’appropriato nome di Titanus giganteus. Gli antichi autori affermavano che potesse toccare addirittura i venti centimetri; e se per molto tempo questa valutazione è stata ritenuta esagerata (i siti Internet riportano un massimo tra i 16 e i 17), grazie a una testimonianza diretta posso assicurarvi che lo è meno di quanto si pensasse. Alcuni anni fa, un mio conoscente ha misurato di persona una coppia di esemplari conservati presso l’università brasiliana di Manaus in Amazzonia e mi ha riferito che mentre il maschio tocca i 18 centimetri, la femmina – nei Cerambicidi spesso più grande – raggiunge addirittura i 19.
E veniamo al soggetto delle foto, l’Aegosoma scabricorne, uno dei più vistosi Longicorni di casa nostra potendo superare i cinque centimetri. Fa parte della sottofamiglia dei Prionini, la stessa cui appartiene il Titanus, che comprende i Cerambicidi più grandi e robusti; in tutto il mondo ne sono state sinora descritte circa 1200 specie, di cui cinque presenti in Italia (tra questi il Prionus coriarius, che ha dato nome all’intero gruppo e l’Ergates faber, del quale una coppia è stata raffigurata nella prima parte del post LINK).
Un maschio di Prionus coriarius (24-45 mm), la specie che ha dato nome alla sottofamiglia dei Prionini (Prioninae). Da W. Harde – F. Severa, Der Kosmos-Käferführer, Franck’sche Verlagshandlung, Stuttgart 1981.
Visto che ci siamo occupati di etimologie, diciamo che il nome del genere Aegosoma viene dal greco e significa “dal corpo (cioè aspetto) di capra”, per via delle lunghe antenne che ricorderebbero le corna del mammifero; mentre il nome della specie, scabricorne, è latino e indica come le stesse siano fittamente ricoperte di minuscole asperità. Tale caratteristica, molto pronunciata nel maschio, è assai meno marcata nella femmina, sesso cui appartiene l’individuo fotografato da Roberto. Sull’aspetto del maschio riportiamo l’antico disegno già comparso nella prima parte del post.
Maschio di Aegosoma.
Da “Il libro dei Coleotteri” di Achille Griffini, Hoepli, 1896.
La specie fu classificata nel 1763 dall’entomologo trentino Giovanni Antonio Scopoli, uno dei primi e più illustri seguaci di Linneo, che la battezzò Cerambyx scabricornis. Più tardi, il genere Cerambyx – divenuto ormai troppo vasto ed eterogeneo – venne suddiviso in numerosi altri e il nostro scabricornis diventò Megopis (nome che significa “dai grandi occhi”, altra particolarità molto evidente nell’insetto). Aegosoma fu dapprima considerato un sottogenere di Megopis, mentre oggi ne è stato separato come genere a sé stante.
Questa visione laterale mette in evidenza, alla base delle antenne, i “grandi occhi” a forma di fagiolo – composti di molte unità, come nella maggior parte degli insetti – che valsero al coleottero il vecchio nome di Megopis.
E a proposito di occhi, quelli di un osservatore non esercitato difficilmente avvisterebbero l’Aegosoma fermo sul ramo…
Come abbiamo già visto nella prima parte, le larve dell’Aegosoma attaccano le parti malate o morte di alberi in via di deperimento e sono eminentemente polifaghe, sviluppandosi a spese delle più svariate latifoglie: querce, noci, faggi, olmi, pioppi, aceri, pruni, peri, ciliegi, ontani, salici, tigli, platani, ippocastani. La vita larvale dura almeno tre anni e il coleottero è a comparsa tardiva, trasformandosi da pupa in adulto già in primavera o all’inizio dell’estate ma poi rimanendo a lungo inattivo nella celletta in cui ha compiuto la metamorfosi, per uscire all’aperto solo in luglio e agosto. Come molti altri Longicorni, questa specie ha abitudini crepuscolari e notturne e durante il giorno gli adulti stanno rintanati sotto le cortecce sollevate o nelle cavità dei vecchi tronchi.
Dal punto di vista morfologico, cioè delle forme, le femmine della specie presentano una caratteristica insolita. Nella stragrande maggioranza dei Cerambicidi l’ovopositore, organo a forma di tubetto che viene infilato nelle screpolature delle cortecce per la deposizione delle uova, quando non è in funzione è tenuto ritirato all’interno del corpo; nell’Aegosoma invece è quasi sempre visibile, sporgendo in permanenza da sotto le elitre all’estremità posteriore dell’insetto. Nonostante quanto affermano molti testi, non si tratta però di un ovopositore esterno: talora – anche se di rado – rimane del tutto nascosto nell’addome, come si può osservare proprio nell’esemplare fotografato da Roberto. Personalmente ho un’ipotesi al riguardo, che vi sottopongo con beneficio di inventario: l’organo è estroflesso al momento della prima deposizione di uova, dopo la quale non viene più ritirato.
…mentre sarebbe più facile vederlo là dove il muschio ricopre il tronco.
Salvo errore, una tale circostanza non è riportata in nessuno dei testi scientifici in mio possesso, come nel caso di un’altra mia osservazione personale sui Prionini (riguardo all’insolita posizione e funzione delle zampe anteriori prima dell’uscita all’aperto dell’insetto adulto). Anni fa, quando la segnalai a diversi colleghi tra cui uno dei migliori specialisti italiani di Cerambicidi, destai lo stupore generale: a quanto pare, la situazione da me riferita era sinora sfuggita ai naturalisti. Ancor oggi, due secoli e mezzo dopo la nascita della moderna entomologia, della stragrande maggioranza degli insetti già classificati – persino nella vecchia Europa, senza parlare della miriade di specie tropicali – conosciamo a malapena l’aspetto.
Giancarlo Colombo
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