di Giancarlo Colombo
Non curo post per Libereali da molto tempo, anche se ormai da anni mi era stato chiesto di dedicarne uno all’argomento di oggi: il Cervo volante, familiare bellissimo insetto di cui Roberto aveva in archivio fotografie di vari esemplari, sia maschi sia femmine. In passato gli avevo assicurato che avrei scritto il pezzo con piacere, ma che mi sembrava opportuno, trattandosi del più grande Coleottero europeo, aspettare di avere l’immagine di un maschio di dimensioni vicine alle massime conosciute nella specie, per dare della medesima un’idea più completa. Finalmente nel luglio scorso, dopo essersi fatto aspettare a lungo, è arrivato un vero primo della classe, che vedete nella foto di apertura: eccomi dunque a mantenere la promessa.
Cervo volante. Due maschi diversamente sviluppati e una femmina.
Le foto non sono alla medesima scala.
Il cervo volante, originariamente classificato da Linneo nel 1758 come Scarabaeus cervus, oggi si chiama scientificamente Lucanus cervus. Il nuovo nome fu coniato nel 1763 da Giovanni Antonio Scopoli, naturalista trentino che già conosciamo [LINK]: lo studioso, notando che le antenne di questo coleottero hanno forma diversa da quella di tutti gli altri allora classificati nel genere Scarabaeus, tolse la specie da quest’ultimo e la collocò in un genere a parte, che battezzò Lucanus. Per la cronaca, proprio con il Lucanus cervus si apre il suo celebre testo sugli Insetti della Carniola.
In seguito fu istituita una nuova categoria sistematica più vasta, la famiglia; e di lì a qualche decennio (1804) l’insigne entomologo francese Latreille ne creò una apposita in cui inquadrare il genere Lucanus e affini. Questa famiglia, che l’autore denominò Lucanidae, oggi fa parte (insieme con una decina di altre) della super-famiglia Scarabaeoidea, nel cui ambito i Lucanidi sono gli unici a possedere la caratteristica già segnalata dal nostro Scopoli, della quale è ora di parlare. Dalle foto che seguono vedrete che la faccenda è molto più semplice di quanto lo sia la sua descrizione.
Le antenne degli Scarabeoidei, impiantate ai lati della testa davanti agli occhi e composte di un certo numero di pezzi (“articoli”) simili a perline di una collana, terminano con alcuni elementi appiattiti e allungati in forma di lamelle orientate in avanti, in numero variabile secondo la famiglia: caratteristica per cui questi coleotteri nel loro insieme sono chiamati anche Lamellicorni. L’articolo che si inserisce trasversalmente sulla testa, detto scapo, negli altri Scarabeoidei è più o meno ingrossato ma in asse con i seguenti. Nei Lucanidi invece, che hanno lo scapo allungatissimo, sottile e leggermente ricurvo, la parte seguente dell’antenna vi è collegata ad angolo retto (il termine tecnico per indicare questo tipo di antenne è “genicolate”, cioè a ginocchio). E poiché le lamelle finali sono come sempre perpendicolari all’asse dell’antenna stessa, nel cervo volante & C. risultano rivolte verso l’asse del corpo anziché in avanti. Il loro aspetto, che ricorda i denti di un pettine, ha fruttato ai Lucanidi anche l’antico nome di Pettinicorni.
Antenna destra di maggiolino (maschio) e di cervo volante (femmina).
Da AA. VV. Scarabeoidea d’Italia, Soc. Entom. Italiana, modif.
Ma da dove viene il termine Lucanus? Come Linneo, anche Scopoli si ispirò agli autori classici, tra cui il romano Plinio il Vecchio. Quest’ultimo, nella sua immensa Naturalis historia, riferisce come uno studioso suo predecessore, Nigidio Figulo, amico di Cicerone, desse al cervo volante il nome di lucavus (di passaggio annotiamo come sia il nomen che il cognomen del dotto romano, Nigidius e Figulus, nel 1819 siano stati assegnati in suo onore dall’entomologo inglese MacLeay a due generi di Lucanidi tropicali da lui descritti). La parola lucavus, poi ritoccata da Scopoli in Lucanus, si ricollega al latino lucus, bosco: di fatto il cervo volante vive nei boschi, o almeno in zone alberate, dalla pianura fin verso gli 800 m di quota, dato che la sua larva si nutre del legno morto e semidecomposto di ceppi e di vecchie radici. L’albero di gran lunga preferito è la quercia, ma le uova vengono deposte anche in altre latifoglie, come castagni, salici, pioppi, faggi.
Cervo volante, maschio e femmina.
La specie fa dunque parte della categoria dei coleotteri saproxilici, o xilosaprofagi (dal solito greco antico xilo- = legno, sapro- = decomposto e -fago = mangiare), infaticabili riciclatori, le cui larve, grazie all’azione preliminare di funghi microscopici e batteri, riescono a digerire il legno, espellendolo ormai trasformato in terriccio vegetale. Come abbiamo già osservato a proposito delle Cetonie [LINK], uno dei principali fattori di rischio per la vita degli organismi saproxilici in generale – fauna, flora, funghi – è attualmente costituito dall’asportazione dai boschi dei tronchi morti o malati e dei rami caduti, con conseguente grave perdita della biodiversità. Riguardo ai coleotteri trovate una lista delle specie italiane in pericolo a questo link.
La copertina della Lista Rossa IUCN.
Nell’elenco il cervo volante, un tempo molto comune ma oggi sempre meno frequente, è inserito nella categoria “quasi minacciati” (di estinzione).
Un breve appunto, che non vuole essere una polemica ma una critica costruttiva. Nell’Unione Europea, la conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e fauna selvatiche è regolata dalla cosiddetta Direttiva Habitat, mentre in Italia sono attualmente in vigore una legge nazionale (in pratica l’accettazione di tale direttiva), un trattato internazionale (Convenzione di Berna) e varie leggi regionali o provinciali (tra cui la nostra legge regionale 10 sulla flora e la piccola fauna oggetto di protezione in Lombardia).
Tutte quante queste misure legislative si propongono di tutelare, tra altre specie, il Lucanus cervus soprattutto mediante una serie di proibizioni, accompagnate da sanzioni più o meno pesanti: divieto di uccisione, di cattura, di detenzione, di commercio, di distruzione dei siti di riproduzione e riposo. Osserva peraltro Alberto Ballerio, un entomologo particolarmente preparato sull’argomento (in ”Scarabaeoidea d’Italia”, vedi link più avanti): “l’attuale politica di conservazione, basata sulla compilazione di liste rosse e la definizione di una serie di divieti, è destinata a rimanere pura retorica, senza in realtà produrre frutti concreti, efficaci e duraturi. Per di più con il fastidioso effetto collaterale di mettere in cattiva luce l’attività di raccolta entomologica, senza che, nella maggior parte dei casi, ve ne sia reale necessità”.
C’è dunque ancora molto da fare e al riguardo ricordo quanto osservavo nel post sulle Cetonie [LINK]: “non sarebbe fuori luogo aprire un discorso sulla scarsa efficacia del divieto di raccogliere un insetto quando non si è pensato prima di tutto a proteggerne l’ambiente”. Per contro, Ballerio sottolinea i benefici della creazione di aree protette (azione contemplata da tutte le leggi di cui sopra) che ospitino specie minacciate: “Un esempio molto positivo di conservazione attiva è costituito dalle “log pyramids” [piramidi o accumuli di ceppi, n.d.r.] che stanno prendendo piede in Inghilterra per creare siti di riproduzione adatti agli insetti saproxilici, soprattutto ai cervi volanti. Si tratta di un sistema economico ed efficace, utilizzabile anche nei giardini e nelle aree agricole, molto più utile alla causa della conservazione degli insetti rispetto all’instaurazione di un improbabile regime poliziesco basato su divieti e sanzioni”.
Ancora un maschio e una femmina di Lucanus cervus.
Qui aggiungo un aneddoto personale, al quale va premessa ancora un’annotazione di Ballerio, che a proposito della rarefazione di altri Scarabaeoidea osserva: “sembra comunque che, per quanto riguarda le specie di grandi dimensioni, anche la predazione da parte dei corvidi possa aver svolto un ruolo importante”.
In effetti, come bene potrebbe raccontarvi Roberto, la cornacchia grigia, specie opportunista e aggressiva che sfrutta ogni possibile fonte di cibo, si è straordinariamente moltiplicata negli ultimi decenni grazie al degrado ambientale. Una quindicina d’anni fa giravo per i boschi della Venezia Giulia insieme con un giovane collega triestino, che essendo allora alle primissime armi non aveva ancora in collezione il Lucanus cervus. In una radura ne vedemmo arrivare in volo un maschio, segnalato dal caratteristico ronzio. Ma proprio mentre ci si rallegrava “se si posa lo prendiamo” una cornacchia, sbucata dal fogliame, intercettò il coleottero in aria e sparì, lasciando cadere a terra i resti dell’insetto, vale a dire la testa ancora unita al torace, a sua volta connesso alle zampe, e le due elitre ciascuna per conto suo. Senza smettere di volare, con un solo colpo di becco di una precisione chirurgica l’uccello si era pappato l’addome, unica parte appetibile.
E veniamo all’aspetto del cervo volante, che come molti altri Lucanidi in tutto il mondo è caratterizzato da un dimorfismo sessuale – la presenza, cioè, di forme differenti nei due sessi – estremamente spiccato. Maschio e femmina potrebbero persino essere scambiati per due specie diverse: mentre le mandibole di quest’ultima appaiono di dimensioni normali, a forma di brevi pinzette, quelle del maschio sono tanto sviluppate da ricordare le corna di un cervo, come dice il nome comune. Queste appendici hanno addirittura perso la loro funzione originaria e non gli servono più per masticare (ricordiamo di sfuggita come uno dei principali caratteri che contraddistinguono i Coleotteri sia la presenza di un apparato boccale definito, appunto, masticatore): il cervo volante ha un diverso modo di nutrirsi, peraltro condiviso anche dalla femmina.
In proposito osserviamo la parte anteriore della testa dell’esemplare nelle due foto seguenti. Tra le mandibole, esattamente al centro noteremo un lungo ciuffetto di peli rossicci diretti in avanti: è l’equivalente della lingua (in realtà si tratta di due strutture parallele ravvicinate, dette gàlee), con cui il nostro eroe assorbe i liquidi zuccherini che costituiscono il suo alimento, soprattutto la linfa che geme dalle ferite degli alberi o i succhi che colano dalle screpolature di frutti troppo maturi.
La “lingua” del cervo volante.
Le ipertrofiche mandibole hanno in compenso assunto la funzione di vere e proprie armi da duello, con cui i maschi si sfidano tra loro per il possesso delle femmine: una coincidenza che se vogliamo avvicina ancor di più il coleottero al bellissimo mammifero dal quale ha preso il nome.
I combattimenti avvengono in presenza di una femmina, che immagineremo posata su un grosso ramo, intenta a succhiare la linfa che cola da una fessura della corteccia. Come negli Insetti in generale, la nubile emette speciali sostanze, i feromoni sessuali, che richiamano i maschi da grande distanza. Questi accorrono in numero e ciascuno di loro, per potersi accoppiare, cerca di togliere di mezzo i concorrenti l’uno dopo l’altro: i duellanti si afferrano a vicenda con le mandibole e tentano di sollevare l’avversario per fargli perdere la presa sul ramo e lasciarlo poi cadere dall’albero.
La stessa grossezza delle appendici, però, le rende sostanzialmente innocue, capaci di stringere saldamente ma non di bucare la resistentissima armatura del coleottero. Qualcuno ipotizza che la presa potrebbe coinvolgere una zampa fino al punto di spezzarla, ma per quanto riguarda la mia esperienza personale posso affermare che in oltre sessant’anni di osservazioni non mi sono mai imbattuto in un solo maschio di cervo volante mutilato.
Sempre per esperienza personale posso aggiungere che l’eventuale pizzico della bestiola – che però non è affatto aggressiva e al quale bisogna costringerla a tutti i costi, tenendola ferma e ficcandole il dito proprio fra le mandibole – può tutt’al più provocare un leggero dolore per la forza della stretta tra le punte delle “corna”, ma niente di più. Ciononostante, secondo la testimonianza di uno scrittore torinese a cavallo tra Otto e Novecento, Alberto Viriglio, i bambini che nelle campagne appena fuori città cercavano il coleottero per giocarci gli avevano dato nientemeno che il nome di “strumpa-dìj”: mozza-dita! Più doloroso può essere farsi mordere dalla femmina (che pure deve esservi letteralmente obbligata), dato che le sue pinzette, corte ma appuntite, riescono a bucare la pelle. Di fatto le impiega per incidere il legno in disfacimento, in ogni punto in cui inserirà un uovo.
Un'altra grossa femmina. Si notino le pinzette delle mandibole.
E con questo veniamo al ciclo vitale dell’insetto.
Poiché le uova, da una cinquantina a un centinaio e delle dimensioni di 2,2 x 1,6 mm, oltre che nei ceppi possono essere deposte anche in vecchie radici semidecomposte, per raggiungere queste ultime la signora cervo può scavare fino a 75 cm di profondità. Mentre la femmina, più longeva, può vivere anche per una stagione, i maschi muoiono al termine degli accoppiamenti: la loro breve esistenza dura da uno a due mesi al massimo.
Nel frattempo la larva ha incominciato a consumare il suo lunghissimo pasto, per ingrossare fino a essere pronta a trasformarsi in insetto perfetto. Per raggiungere l’obiettivo dovrà crescere per vari anni (tra poco vedremo quanti), dopo i quali scavando si trasferirà nel terreno, dove si fabbricherà una specie di grossolano bozzolo di terriccio e sfasciume di legno entro il quale compirà la metamorfosi.
Larva di cervo volante; pupa di cervo volante maschio. Copyright boscofontanabelfiore e Pinterest.
Questa, che avviene in autunno, consta di due fasi. Nella prima, detta impupamento, la larva esce dalla sua pelle e cambia forma passando allo stadio immobile di pupa (dal latino pupa = bambola), l’equivalente della crisalide delle farfalle; nella seconda la pupa, dentro il suo involucro, si trasforma in insetto perfetto. Al termine del processo l’adulto ancora molle sfarfalla, cioè sguscia fuori dalle spoglie della pupa; resta però all’interno del bozzolo – dove la sua corazza si indurisce nel giro di pochi giorni – e vi rimane inerte fino al momento di uscire all’aperto, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate successive.
Le diverse fasi del ciclo vitale di Lucanus cervus. Da Edmund Reitter, Fauna Germanica.
Die Käfer des Deutschen Reiches (I Coleotteri dell’Impero tedesco), 1908-1917.
A questo punto credo utile ricordare che la grandezza dell’insetto dipende dalla quantità e qualità del cibo incontrato dalla larva. Tra l’altro, questa è la sola in grado di compiere le mute che le consentono, cambiando pelle, di aumentare le proprie dimensioni e assumere una nuova forma al momento di impuparsi; mentre l’adulto, imprigionato nella sua armatura rigida, dopo la trasformazione non cresce né cambia più, come del resto tutti i Coleotteri senza eccezione.
In conclusione, un cervo volante più grande non è “più vecchio”, ma proviene da una larva che ha avuto la possibilità di nutrirsi meglio ed è cresciuta di più; allo stesso modo, un individuo meno imponente non è “più giovane”, ma semplicemente viene da una larva rimasta più piccola perché ha avuto a disposizione cibo in quantità minore, o meno ricco di sostanze nutritive in quanto già in parte sfruttato e digerito dalle generazioni precedenti. Ovviamente, la considerazione vale solo a proposito dei cervi volanti allo stato di adulti, perché non va dimenticato che la loro esistenza complessiva comprende anche la vita larvale: questa è più breve – anche tre soli anni – nelle larve più mingherline, che daranno luogo ad adulti di taglia minore, mentre per quelle gigantesche, da cui provengono i maschi di otto centimetri, si prolunga almeno fino a otto anni (!). Se consideriamo anche la durata della fase di crescita della larva, dunque, un adulto gigante è realmente più “vecchio” di uno piccolo.
Non è tuttavia da escludere che a determinare le dimensioni medie di una popolazione possano concorrere anche fattori di carattere genetico; qualche autore, poi, al riguardo ipotizza addirittura la presenza di due vere e proprie forme distinte, dette “major” e “minor”. Ma che misure può raggiungere il nostro eroe? Lo splendido lavoro “Coleotteri Scarabaeoidea d'Italia”, messo in rete a cura della Società Entomologica Italiana (potete consultarlo a questo link:
assegna alla specie una lunghezza minima di 25 mm e una massima di 86, che si riferisce ovviamente ai maschi più sviluppati, mentre le femmine arrivano ai 45 mm. Per la cronaca, il “numero uno” fotografato da Roberto misura 8 cm esatti.
Ed ecco un dettaglio poco noto: con l’aumentare della corporatura del maschio non soltanto cresce la grandezza delle sue mandibole, ma cambia anche la loro forma. Il diverso aspetto dei Lucanidi maschi è stato quindi codificato in una serie di aggettivi che definiscono l’insetto in base a quest’ultima. È una specie di graduatoria, di cui ci limitiamo a citare le quattro categorie principali, in ordine crescente di dimensioni: prionodonte, anfiodonte, mesodonte, telodonte. (Il primo grado si riscontra soltanto in specie esotiche, mentre in particolare l’ultimo si presenta anche nel nostro Lucanus cervus: il grande esemplare delle recenti foto di Roberto è appunto un individuo telodonte. Per inciso, nella specie europea è l’intera forma della testa a cambiare: il capo degli esemplari telodonti, oltre ad allargarsi, cresce anche in altezza e sopra gli occhi e sulla “nuca” sviluppa speciali strutture dette creste cefaliche).
Esistono anche passaggi intermedi, come anfimesodonte, su cui sorvoliamo, dal momento che tutti questi curiosi termini “tecnici” non hanno un vero e proprio valore scientifico ma sono più che altro orientativi: in realtà, nell’ambito di una popolazione abbiamo a che fare con forme le quali sfumano l’una nell’altra senza soluzione di continuità.
Due maschi di Lucanus cervus che mostrano un differente sviluppo del capo e delle creste cefaliche.
Le due foto non sono alla stessa scala.
Provo comunque a chiarire l’etimologia e il significato di tali definizioni con l’aiuto di una serie di disegni schematici. Quelli che riporto provengono dal testo giapponese che a suo tempo ci è servito a visualizzare come volano le Cetonie: “Beetles Of The World” (Coleotteri del mondo) di Y. Yasuda e S. Okajima, Gakken, Tokyo, 1980. Per inciso, la specie scelta per illustrare la scala è l’Odontolabis alces delle Filippine. Avendo dovuto capovolgere l’ordine delle figure, che nell’originale era decrescente, ne ho approfittato per togliere le lunghe didascalie in giapponese: penso che nessuno protesterà.
Le differenti forme delle mandibole nei Lucanidi.
Da Yasuda - Okajima, Beetles Of The World, modif.
Il grado iniziale, prionodonte (dal greco prìon = sega e odonto- = dente), si riferisce ai maschi meno sviluppati in assoluto, le cui mandibole, simili a quelle delle femmine, mostrano una fila di fitti dentini somiglianti appunto ai denti di una sega. I due primi disegni dello schema, in alto a sinistra e al centro, mostrano la testa di una femmina e quella di un maschio prionodonte. Segue a destra la testa di un maschio anfiodonte, termine che viene da anfi- = doppio: la mandibola ha denti a entrambe le estremità, sia a quella prossimale (la più vicina al corpo) sia a quella distale (la più lontana). In basso a sinistra troviamo un maschio mesodonte; meso- significa mezzo e si riferisce alla presenza di un grosso dente isolato verso la metà della mandibola. E poiché télos vuol dire fine, la qualifica di telodonte indica che i denti sono spostati verso la punta della mandibola stessa. Se non conoscessimo queste distinzioni, quanti di noi se la sentirebbero di affermare che tutti gli esemplari nel riquadro appartengono alla stessa specie?
Accenniamo qui di sfuggita al fatto che tra i coleotteri, due gruppi sono considerati una sorta di élite, oggetto delle collezioni, se così si può dire, più “nobili”: il vastissimo e bellissimo genere Carabus e la famiglia Lucanidae. Ciò ha senso e valore, ovviamente, soltanto secondo la mentalità di certi collezionisti “puri”, espressione in cui l’aggettivo non ha niente a che spartire con l’idealismo ma si riferisce al fatto che queste persone, più o meno indifferenti allo studio della vita e del ruolo ecologico degli animali che raccolgono, sono interessate soprattutto al loro possesso materiale.
I loro obiettivi principali, quindi, sono tre: 1- il maggior numero possibile di specie (teoricamente tutte quelle classificate, comprese – anzi, in cima ai desideri – le più rare); 2 - il maggior numero possibile di individui, per illustrare la variabilità delle medesime; 3 - gli esemplari più grandi che si possano incontrare. E poiché la rarità di questi ultimi aumenta man mano che le dimensioni si avvicinano a quelle estreme, il loro prezzo sul mercato specializzato cresce in modo esponenziale per ogni millimetro di lunghezza in più! Vi sarà chiaro, dunque, come e perché la grande variabilità individuale dei Lucanidi rappresenti per le suddette persone una vera “croce e delizia”.
Stavolta le due foto sono all’incirca in scala.
Chi abbia un minimo di curiosità naturalistica si sarà forse domandato perché il gigante tra i nostri coleotteri sembri non avere parenti prossimi, che salvo imprevisti dovrebbero essere facilmente riconoscibili. In effetti, nei climi temperati i Lucanidi hanno pochissimi rappresentanti: nel nostro paese se ne contano nove specie in tutto (appartenenti a 6 generi) e per giunta si tratta di insetti che è difficile incontrare se non si va a cercarli… e magari anche se ci si va. A parte il Lucanus cervus e il suo congenere di dimensioni alquanto inferiori – dai 30 ai 50 mm – Lucanus tetraodon, che gli somiglia tanto da poter essere scambiato per un Lucanus cervus di taglia minore, i rimanenti sono di aspetto poco vistoso, piuttosto piccoli e spesso non comuni; un paio possono essere considerati abbastanza rari e di altri due i ritrovamenti in Italia si contano addirittura sulle dita di una mano.
Stupisce, per contro, l’abbondanza di forme presenti in alcuni paesi tropicali, nonostante la famiglia, rispetto ad altre i cui componenti si annoverano a decine di migliaia, nel complesso non sia delle più vaste: il numero delle specie conosciute in tutto il mondo si aggira attualmente intorno alle 1500. È però senza dubbio un gruppo tra i più appariscenti dell’intero ordine dei Coleotteri; e se ogni famiglia ha un angolo del pianeta in cui appare più ricca e bella che altrove, la patria di questi è senz’altro l’Asia sud-orientale.
Poiché in questo post mi limiterò a parlare dei Lucanus appartenenti alle due specie italiane, rimando chi volesse approfondire l’argomento degli altri Lucanidi di casa nostra a due pagine di un bellissimo sito gestito da Guido Sabatinelli, specialista della super-famiglia Scarabaeoidea. Ne riporto l’immagine che presenta insieme tutte le nostre specie, illustrazione che trovate al link
http://www.scarabeidi.it/Lucanidae/chiave_lucanidi.html .
I singoli generi e specie sono elencati e descritti al link
I lucanidi italiani. Dal sito Scarabeidi.it di Guido Sabatinelli.
Venendo alla distribuzione del genere Lucanus nel nostro paese, il Lucanus cervus è presente dai piedi delle Alpi alla Toscana-Umbria-Marche e parte del Lazio, come si può vedere dalla seguente tavola della sua diffusione secondo Bartolozzi e Maggini (da Progetto di attività di monitoraggio della fauna invertebrata ecc., Corpo Forestale dello Stato – Università La Sapienza, Roma 2012). Gli autori aggiungono un’unica segnalazione isolata in Campania e una in Sicilia.
Distribuzione in Italia di Lucanus cervus secondo Bartolozzi e Maggini.
Nel resto dell’Italia peninsulare e nella nostra isola maggiore, il cervo volante propriamente detto è sostituito dal già citato Lucanus tetraodon, che tuttavia in alcune zone, come per esempio in Toscana e Lazio, convive con il cervus (recentemente ne sono state scoperte anche due popolazioni settentrionali, addirittura in Lombardia – in località lungo il fiume Ticino – e in Romagna). Mentre nell’Italia continentale è presente la cosiddetta forma nominale della specie, Lucanus tetraodon tetraodon, in Sicilia se ne incontra la sottospecie endemica, cioè esclusiva di quel territorio, Lucanus tetraodon sicilianus, in cui le mandibole del maschio sono più fortemente arcuate e nella femmina gli angoli posteriori del pronoto (parte superiore del protorace) appaiono più fortemente sinuati. Completiamo la panoramica annotando che sinora, nessuna specie di Lucanus è stata rinvenuta in Sardegna.
Ma come distinguere un cervus di dimensioni medio-piccole da un tetraodon di grande taglia? (Anche se a quest’ultimo le fonti concordano nell’assegnare 50 mm di lunghezza massima, posso tuttavia riferire che nella collezione di Lucanidi – una delle più ricche d’Italia – dell’entomologo comasco Giorgio Taroni, specialista di questa famiglia, figura un maschio di tetraodon del tutto eccezionale, di circa 7 cm).
Sperando che almeno qualcuno di voi sia curioso di come si identifica un insetto, vi descrivo il procedimento.
Immaginiamo di avere un esemplare cui dobbiamo assegnare il nome scientifico. Una volta riconosciuto almeno a grandi linee il gruppo di appartenenza, per esempio la famiglia, ci occorrerà un catalogo specialistico che riporti tutte le specie sinora conosciute della medesima. Il testo, privo o quasi di illustrazioni, è costituito soprattutto dalle cosiddette tavole dicotomiche. Si tratta di descrizioni per così dire a scatola cinese, che partono da poche caratteristiche comuni a tutto l’insieme dei soggetti considerati per poi elencare nel suo ambito, con numeri di riferimento, le particolarità distintive di ognuno dei gruppi più ristretti che lo compongono. Una volta individuate quelle che corrispondono al nostro esemplare andremo al relativo numero, trascurando tutto il resto: qui troveremo un’altra serie di alternative numerate, tra cui di nuovo sceglieremo quella che ci riguarda. Procedendo di selezione in selezione incontreremo caratteri via via sempre più specifici, finché arriveremo a quelli posseduti in esclusiva dal nostro insetto, di cui il testo ci indicherà finalmente il nome.
Inizio delle tavole dicotomiche sui Lucanidae in Carlo Pesarini, Insetti della Fauna Italiana – Coleotteri Lamellicorni, Società Italiana di Scienze Naturali, Milano, 2004.
Nella pratica, sulle tavole dicotomiche che corredano il già citato “Coleotteri Scarabaeoidea d'Italia” le particolarità caratteristiche delle due specie che ci interessa distinguere tra loro sono così descritte (confrontate con la tavola di Sabatinelli):
- maschio con mandibole prive di dente interno nel terzo basale [cioè più vicino al corpo], femmina con angoli posteriori del pronoto smussati. Lucanus cervus.
- maschio con mandibole dotate di un dente interno nel terzo basale, femmina con angoli posteriori del pronoto appuntiti e leggermente sporgenti. Lucanus tetraodon.
Non è detto però che un catalogo riporti sempre tutte le differenze tra due specie, dato che l’autore può limitarsi a riferire quelle che gli sembrano più immediatamente risolutive ai fini del riconoscimento: un altro preferirà magari attirare la nostra attenzione su un carattere diverso. Per esempio, tra il cervus e il tetraodon esiste anche una differenza che riguarda le antenne, in particolare il numero delle lamelle e il modo in cui le stesse sono innestate sull’appendice. Al riguardo vi riproduco direttamente il relativo disegno (modificato da Sabatinelli) proveniente da un testo specialistico (Mario E. Franciscolo, Fauna d'Italia XXXV - Coleoptera: Lucanidae, Calderini, Bologna, 1997), che vale più di ogni descrizione.
Da M. E. Franciscolo, Fauna d'Italia XXXV - Coleoptera: Lucanidae, modif.
A questo punto credo di avere toccato, almeno per sommi capi, tutti gli aspetti più importanti dell’argomento dal punto di vista naturalistico. Resta però ancora molto da raccontare su come un coleottero così grande e strano, e oltre al resto così ben conosciuto, abbia da sempre interessato la curiosità dell’uomo, tanto da essere diventato, nei secoli, protagonista di miti, tradizioni e superstizioni, nonché oggetto di rappresentazioni artistiche. E prendendo come punto di partenza la mitologia classica avremo la sorpresa di scoprire una cantonata presa nel ’700 nientemeno che dal buon Linneo in persona!
Premetto però la segnalazione di un errore molto più moderno, dal momento che è diffusissimo sul web. In proposito ho cercato il testo latino originale di Plinio il Vecchio, per leggere di prima mano le osservazioni del naturalista sul cervo volante. Dopo aver accennato agli scarabei, lo scrittore afferma (traduco da Historia naturalis, Libro undicesimo, XXXIV, 97): “in un certo loro grande genere le corna molto lunghe, bifide nelle pinze dentate sulla punta che a piacimento si avvicinano nel mordere, vengono anche sospese al collo degli infanti come protezione dalle malattie” (per inciso, è proprio qui che l’autore aggiunge: “Nigidio chiama questi insetti lucavus”). Nonostante la frase non possa avere altre interpretazioni, nove siti web su dieci in cui si parla del nostro coleottero raccontano invece che gli antichi Romani usavano in proposito la testa, vale a dire tutta quanta. Ma oltre al fatto che il caput (unica parola esistente in latino per indicarla) da Plinio non è nemmeno nominato, va considerato come per un piccino di pochi mesi un’intera testa di Lucanus (magari telodonte!) appesa al collo sarebbe stata non solo ingombrante ma anche potenzialmente pericolosa.
E poiché i simboli si tramandano attraverso i secoli anche quando il loro significato originario viene dimenticato, è verosimile che un classico portafortuna ancor oggi donato ai neonati, un ciondolo costituito da un rametto di corallo (come quello che adorna il petto del piccolo Gesù nella Madonna di Senigallia o nella Pala di Brera di Piero della Francesca), sia derivato, in epoca imprecisata ma molto antica, dalla forma ramificata della mandibola del cervo volante.
Piero della Francesca, Madonna di Senigallia. Datata tra il 1470 e il 1485. Da Wikipedia.
(Ultima tappa: il pendente di corallo, materiale la cui lavorazione artistica è un vanto della Campania, avrebbe terminato la sua evoluzione di talismano nel classico cornetto caro ai napoletani).
Il caput del cervo volante ha comunque, con i bambini dell’antichità romana, un rapporto altrettanto fatale al disgraziato Lucanide. Uno scrittore greco vissuto a Roma tra il primo e il secondo secolo d. C., Antonino Liberale, afferma che i fanciulli staccavano la testa del malcapitato coleottero – niente di nuovo sotto il sole, i ragazzini sono sempre stati inconsapevolmente crudeli – per farne una specie di giocattolo, la lyra di Cèrambo, della quale diremo. Ma c’è molto di più: riguardo al nostro argomento l’opera di Antonino, Le metamorfosi (una raccolta di favole classiche sulle trasformazioni subite da personaggi mitologici), è una fonte importantissima, perché vi si racconta l’origine mitica del cervo volante.
Riassumo la favola. Cerambo, un pastore della Tessaglia, era caro alle Ninfe, divinità minori della natura che dilettava con la musica e il canto, nei quali era famoso: era addirittura inventore della lyra, strumento a corde che nella sua versione originaria aveva come cassa di risonanza un guscio di tartaruga (nell’immagine un esemplare romano restaurato).
Lyra romana restaurata. British Museum. Copyright Dr Hannah Culik-Baird.
Ciononostante, un giorno le Ninfe trasformarono Cerambo in cervo volante, gesto che potrebbe avere più di una motivazione.
Non mancherebbe l’affetto: era imminente il diluvio, presente anche nella mitologia classica, in cui sarebbe perita tutta l’umanità tranne una sola coppia, mentre l’insetto, essendo in grado di volare sopra le acque, si sarebbe salvato; il che può spiegare, oltre al resto, la funzione protettiva e beneaugurante della sua mandibola. Tuttavia si trattò in primo luogo di una punizione per una colpa (involontaria) del povero pastore, che essendo stato reso pazzo dal dio Pan, geloso della sua abilità musicale, aveva insultato gravemente le amiche Ninfe.
Sta di fatto che oggi “lo si vede sugli alberi e ha denti ricurvi e muove continuamente le mascelle, nero, allungato, con ali rigide, similmente ai grandi scarabei”; e “i fanciulli lo usano come trastullo e staccatagli la testa la portano in giro, la quale per le corna somiglia alla lyra che si fa con la tartaruga” (Antonino Liberale, Metamorfosi, 22).
La lyra di Cerambo.
E ora occhio al colpo di scena. Ricordate l’Aegosoma scabricorne [LINK] e la sua famiglia, i Cerambycidae, volgarmente Ceràmbici o Longicorni [LINK]? Ebbene, del cervo volante Antonino dice tra l’altro: “è chiamato dai Tèssali keràmbyx”. Che c’entra – mi chiederete – con il Lucanus cervus, che è di un’altra parrocchia? Invece c’entra, e come: eccola qui la cantonata di Linneo, che riconoscendo nella parola greca kerambyx la derivazione da kéras, corno, anziché al coleottero dalle grandi mandibole pensò a quelli dalle lunghe antenne e nel suo Systema Naturae del 1758 battezzò un loro genere Cerambyx, nome poi esteso alla famiglia intera e tuttora in uso con quel senso.
I classici offrono però anche sorprese di altro genere. Se la prima parte del nome viene da kéras, è probabile che la seconda parte sia da ricollegare a boùs, bue: dunque il termine kerambyx significherebbe, letteralmente, “(con) corna da bovino” (in effetti i maschi piccoli, che sono molto più frequenti, non mostrano i tre dentoni all’apice della mandibola propri dei telodonti, che invece evocano subito la somiglianza col cervo). Se siete lombardi, “corna da bovino” dovrebbe ricordarvi qualcosa… Proprio così: è l’esatto corrispondente di cornabò, in qualche zona deformato in cornobobò, il nome dialettale del cervo volante.
I nostri contadini usavano dunque la stessa immagine degli antichi Tessali. Del tutto fuori strada erano invece i campagnoli piemontesi del paesino dei miei nonni materni, nel pinerolese, dove trascorsi tante vacanze estive: forse ingannati dal fatto che l’epoca di comparsa del coleottero, intorno a giugno, coincide con quella delle cicale, gli avevano affibbiato appunto la qualifica di siàla. Ma come abbiamo appena visto, sbagliano persino i grandi naturalisti!
Mister Cornabò.
Spostiamoci ora in Europa centrale, dove un’altra rivelazione ci aspetta in Germania. La lingua tedesca è insolitamente ricca di nomi per indicare il cervo volante: Hirschkäfer, Schröter, Hornschröter, Feuerschröter, Hausbrenner, Donnergugi (o Donnerguge, o Donnergueg); e non sono tutti. Vediamone il significato. La prima e più comune denominazione, Hirschkäfer, è analoga alla nostra: scarabeo (Käfer) cervo (Hirsch). La seconda, Schröter, che è anche il nome comune dell’intera famiglia Lucanidae, significa più o meno “quello che mastica”, dove il verbo non va preso alla lettera ma corrisponde al “muove continuamente le mascelle” di Antonino Liberale. Hornschröter, in cui compare Horn “corno”, potrebbe quindi essere tradotto all’incirca “l’insetto cornuto che muove le mascelle”.
Se queste prime denominazioni, di tipo descrittivo, non ci dicono niente di nuovo rispetto a quelle che già conosciamo, vale la pena di soffermarci sui due appellativi seguenti, per noi del tutto impensabili. Poiché Feuer è “fuoco”, Haus “casa” e Brenner “colui che brucia”, Feuerschröter vale “il muovi-mascelle del fuoco” e Hausbrenner “il bruciacase”. Nella regione intorno a Bamberg si conserva ancor oggi memoria di una superstizione risalente al Medioevo, secondo la quale il cervo volante è una creatura maligna: si aggira per l’aria di notte, circostanza inquietante già di per sé (i maschi in cerca di femmine spiccano il volo soprattutto al crepuscolo), per giunta trasportando tra le mandibole carboni ardenti per lasciarli cadere su case e capanne e provocare incendi. Nel 1842 il celebre entomologo francese Mulsant riferiva addirittura che all’epoca della comparsa dei cervi volanti i contadini tedeschi organizzavano vere e proprie battute di caccia al povero Lucanide.
Ritenerlo colpevole di quella sciagura, temutissima in tempi e luoghi in cui le abitazioni, nelle campagne ma non solo, erano in gran parte di legno e i tetti di paglia, è una delle tante manifestazioni del generico giudizio di condanna (cui non è estranea l’influenza della chiesa) nei confronti della natura, creduta dominio ed espressione di forze diaboliche. Il fuoco non è forse associato per antonomasia alle potenze infernali? Questa ossessione del mondo tedesco per l’accostamento del nostro coleottero al demonio, senza dubbio suggerito in primo luogo dalle “corna” appannaggio di entrambi, ha talora anche manifestazioni inaspettatamente apprezzabili, come la deliziosa miniatura in un messale del 1526 conservato nell’Abbazia di Novacella (Neustift) presso Bressanone, che mostra un enorme cervo volante nell’atto di aggredire due angioletti recatisi a far legna.
Miniatura in un messale dell’Abbazia di Novacella (BZ), 1526.
Da Giorgio Taroni, Il cervo volante, Electa, Milano, 1998.
Quanto a Donnergugi, infine, Donner è il tuono, mentre dei suffissi -gugi, -guge o -gueg non ho trovato tracce. Un sito web spiega come Donner venga da Donar, forma antica del nome di Thor, dio del tuono nella mitologia germanica: il cervo volante sarebbe quindi uno “scarabeo del tuono”, da ricollegare al fulmine, che pure può causare incendi. Secondo me, però, la spiegazione potrebbe essere (anche) un’altra. Molti insetti diventano più attivi all’avvicinarsi di un temporale, quando il clima è favorevole al loro volo per il giusto rapporto tra pressione, temperatura e umidità dell’aria; e in passato, là dove il coleottero era comune non doveva essere difficile avvistarlo, in qualche pomeriggio d’estate, prima di un acquazzone.
Mentre l’inglese stag beetle, significando alla lettera “scarabeo cervo”, segue pari pari l’Hirschkäfer dei tedeschi e lo spagnolo ciervo volante ricalca esattamente l’italiano, l’espressione francese cerf-volant, anche se linguisticamente del tutto analoga, ha una speciale importanza dal punto di vista storico- culturale: è infatti nientemeno che l’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, nel 1771, a registrarla per la prima volta nel significato traslato di aquilone, passato poi anche all’italiano. In francese, anzi, per indicare l’aquilone non esistono altre parole.
E qui un altro cerchio si chiude. Ricordate il post di Libereali sul maggiolino [LINK], là dove si dice che in altri tempi i ragazzini di campagna si divertivano a farlo volare, come la cetonia, legato a un filo? Per questo trastullo è stato sicuramente impiegato anche il cervo volante, tanto che il suo nome è poi stato ereditato dal giocattolo. Non c'è da stupirsi: il Lucanide sembra fatto apposta, vistoso e innocuo com’è, fornito di corazza robusta e facile da catturare… e bello, almeno agli occhi di bambini che vivono a contatto con la natura, non ancora guastati dalle parzialità di un'estetica che pur ammettendo quasi a malincuore la scontata bellezza delle farfalle ha in orrore il resto degli insetti in generale. È così che in altri paesi del mondo, il gioco del cervo volante “al guinzaglio” continua, come testimonia tra l’altro questa illustrazione di un libretto divulgativo pubblicato negli ormai lontani anni 60, riferita a una specie del sud - est asiatico, il Cyclommatus tarandus. (Di passaggio ne approfitto per segnalare un’altra curiosità: in una diversa specie dello stesso genere, il Cyclommatus metallifer di Sulawesi, le mandibole sono le più lunghe conosciute fra tutti i Lucanidi, potendo addirittura superare la lunghezza del resto del corpo!)
Cyclommatus tarandus “al guinzaglio”. Da Gli Insetti, Franco Peruzzo Ed., 1966.
Cyclommatus metallifer, maschio. 7 cm. Sulawesi, Indonesia. Da Pinterest.
Non molto c’è da dire sugli impieghi pratici del cervo volante nostrano, che peraltro non mancano e soprattutto non mancarono in passato. Ci limitiamo a riportare che secondo alcuni autori era la sua larva – e non quella dei grossi Cerambicidi – la ghiottoneria dagli antichi Romani chiamata cossus, come si è detto nella prima parte del post sull’Aegosoma scabricorne [LINK]; che Thomas Muffet (1553 - 1604), autore del più antico trattato di entomologia in lingua inglese, consiglia di bollire il coleottero nell’olio per ricavarne un unguento contro la febbre; che un tempo nelle campagne, ignoro in quale parte d’Europa, si usava il dente acuto di una sua mandibola per forare il lobo dell’orecchio delle bambine, destinato a portare gli orecchini; e che in Baviera ancor oggi si appendono, tra altri gingilli, una o più teste di “Hirschkäfer” alla tradizionale catenella da far penzolare sul davanti dei tipici pantaloni corti in pelle di camoscio.
Concludiamo con un accenno al cervo volante nelle arti figurative, in cui è celeberrimo lo splendido acquarello, datato 1505, del grande pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer, il quale già tre anni prima aveva raffigurato il cervo volante nell’altrettanto noto disegno acquarellato della Madonna degli animali (se volete cercarlo nella riproduzione in Internet della quale vi dò il link lo troverete nell’angolo in basso a sinistra, sotto il muso del piccolo leone simile a un barboncino, che lo guarda con aria perplessa).
https://it.wikipedia.org/wiki/Madonna_degli_Animali#/media/File:Durer,_madonna_degli_animali.jpg
Il cervo volante di Albrecht Dürer.
Si noti, sotto la data, il suo monogramma, formato da A, D e T maiuscole.
Va poi ricordato almeno Georg Flegel, compatriota e collega di Dürer vissuto all’incirca un secolo più tardi, primo pittore tedesco a specializzarsi in meravigliose nature morte, nelle quali spesso compare un bel maschio del nostro coleottero. Sul web ne trovate almeno cinque, delle quali riporto qui la più nota.
Georg Flegel, Natura morta con cervo volante. 1635.
C’è chi legge quest’opera in chiave allegorica. Il pesce sarebbe il noto simbolo di Cristo, il pane e il calice di vino (evidentemente versato dalla piccola brocca col coperchietto di metallo) alluderebbero all’Eucaristia, il coltello andrebbe associato al sacrificio e i porri al digiuno quaresimale, mentre lo sfortunato Hirschkäfer rappresenterebbe, alla tedesca, il male. Mi sembra un po’ tirata per i capelli: si tratta semplicemente di oggetti del vivere quotidiano. Quanto agli insetti, il Lucanide dal preteso significato diabolico non è l’unico a far capolino nelle nature morte di Flegel: in un’altra compare per esempio, posata su una fetta di pane, una graziosa libellula, mentre in un’altra ancora, Natura morta con uccelli e insetti, il cervo volante non è solo ma in compagnia di un cerambice, un grillo, una farfalla, un’ape, una mosca eccetera. E a me viene un dubbio. In tutti questi quadri il nostro coleottero, a parte un caso in cui l’immagine è rovesciata in modo speculare, appare nella stessa posa in cui lo ha raffigurato Dürer nel suo famoso acquarello: non potrebbe darsi che Flegel lo avesse visto e intendesse rendere omaggio al grande maestro con una sorta di ripetuta citazione?
Se davvero citazione fu, è il caso di dire chi la fa l’aspetti. Mi sono imbattuto in una composizione in cui prospettiva, luce e atmosfera sono pressoché identici a quelli della precedente e dove ricorrono uno per uno gli stessi elementi, tutti però con minime variazioni: calice, pane, coltello e vaso di altra forma o tipo; cipollotti anziché porri; pesce fresco anziché secco su un piatto di vetro anziché di metallo. Si tratta di un raffinato “pastiche”, come si definisce un’opera il cui autore imita deliberatamente lo stile di un altro artista; ma ecco la sorpresa, non è una tela bensì una fotografia. Al sito nel quale l’ho trovata l’ha inviata un certo Guido G., che si è divertito – stavolta i dubbi non sono possibili – a citare Flegel. I miei ammirati complimenti.
Ebbene, caro Guido, un detective entomologo, anche pensando di aver a che fare con un dipinto, capirebbe comunque al primo colpo d’occhio che si tratta di una creazione recente. Il coleottero, esso stesso una variazione, non è un cervo volante bensì un Dinastide, parente del nostro scarabeo rinoceronte. Si chiama Xylotrupes gideon, è comune dall’India a tutto il sud - est asiatico e la facilità di reperirne un esemplare da noi, beninteso come insetto da collezione, ha solo qualche decennio.
Elementare, Watson!
Guido G., Natura morta con coleottero. Dal web, copyright Juzaphoto.
E veniamo all’Ottocento, forse il secolo di massimo splendore delle scienze naturali, in cui in tutta Europa si moltiplicano, in tale abbondanza da rendere impossibile contarli, i testi di divulgazione corredati di illustrazioni che spesso possono essere considerate vere opere d’arte. Come tipico esempio di quell’epoca eccovi un’accurata incisione in bianco e nero, dal volume sugli Insetti facente parte di una famosa opera francese tradotta anche in italiano, “Vita e costumi degli animali” di Louis Figuier (terza edizione italiana F.lli Treves, Milano, 1881).
Lucanus cervus maschio e femmina, larva, pupa (femmina). Da Louis Figuier, Gl’Insetti, 1881.
E per salutarvi scelgo un certo disegno a china di un maschio di Lucanus cervus non solo perché è uno dei suoi più bei ritratti che io conosca, ma perché mi ci affezionai fin da quando avevo sette anni. Viene da un libro di cui ho già parlato e che cambiò la mia vita, “Caccia grossa fra le erbe” [LINK] dell’entomologo torinese Mario Sturani, a proposito del quale vi racconto, come chiusura, un aneddoto freschissimo.
Tra le notizie che avrei voluto dare in questo post c’erano le misure dell’uovo del cervo volante. Per giorni le ho cercate invano girando in lungo e in largo sul web, finché mi sono ricordato che le avevo lette in un ponderoso lavoro scientifico proprio di Mario Sturani, dove tali misure erano citate come termine di confronto con quelle dell’uovo dei suoi prediletti Carabus, la cui biologia era argomento di quello studio. La pubblicazione è del 1962 e a regalarmela, due anni dopo, fu l’autore in persona, il giorno in cui - diciassettenne - feci la sua conoscenza a Torino.
A distanza di oltre mezzo secolo, il mio maestro e amico mi ha dato una mano ancora una volta.
Mario Sturani. Cervo volante maschio. Da Caccia grossa fra le erbe, Einaudi, Torino, 1942.