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martedì 13 agosto 2013

Cicindele, tigri degli insetti

Diciamo subito che il coleottero illustrato qui sotto, lungo circa un centimetro e mezzo, appartiene al genere Cicindela (pronunciare con l’accento sulla e). E’ un corridore instancabile e rapidissimo: lo sa anche Roberto, che mi ha detto di averlo inseguito a lungo, faticando non poco per riuscire a fotografarlo. “Sei stato fortunato che non abbia preso il volo con la stessa facilità di una mosca per posarsi a pochi metri di distanza, giocando a farsi rincorrere in quel modo per un bel po’ prima di piantarti in asso e sparire” gli ho risposto; è infatti questa la tattica abituale con cui le Cicindele si sottraggono a un possibile nemico.


Cicindela gallica, agosto, Monte Legnone (LC).
Riguardo alla loro velocità ecco quanto riporta un sito Internet curato negli Stati Uniti, dove è molto diffuso un certo tipo di volgarizzazione scientifica spicciola a colpi di misure, numeri, percentuali e paragoni. Dopo aver riferito che una Cicindela può raggiungere i 9 km orari, il compilatore aggiunge che in proporzione alla lunghezza dell’insetto tale prestazione supera di circa 22 volte quella di uno sprinter olimpionico, il quale per eguagliare il coleottero dovrebbe filare a 770 chilometri all’ora! Ma lasciamo queste osservazioni bislacche ai nordamericani, spesso un po’ infantili, e veniamo a considerazioni più pertinenti all’argomento secondo la nostra mentalità.

Dal punto di vista della classificazione, alle Cicindele è successo esattamente il contrario di ciò che è accaduto ad altri gruppi di Coleotteri (vedi su questo blog il post “maggio=Maggiolino”): un tempo inquadrate come famiglia a sé stante col nome di Cicindèlidi, attualmente quasi tutti gli autori le considerano una sottofamiglia dell’immensa famiglia dei Caràbidi. Nel mondo ne sono state classificate a tutt’oggi oltre 2000 specie, di cui meno di una ventina presenti in Italia. Le dimensioni massime sono raggiunte dalle Manticora delle regioni desertiche dell’Africa meridionale, che possono superare i 6 cm.





Abbiamo a che fare con dei formidabili carnivori, tanto che in inglese sono detti tiger beetles, scarabei tigre. Il paragone fu del resto escogitato già da Linneo, che nel suo “Sistema della Natura” (la cui decima e ultima edizione, la più completa, è del 1770) aveva scritto: “Cicindelae insectorum tigrides veloces”, le Cicindele sono le veloci tigri degli insetti.

Come tali, questi coleotteri – che attaccano le loro prede in corsa o addirittura in volo – sono ottimamente equipaggiati per la vita di rapina: osservandoli da vicino si è subito colpiti dalle loro grandi mandibole, slanciate e acutissime, a forma di falce dal bordo seghettato e munita di quattro lunghi denti. Quando si chiudono, queste specie di cesoie si incrociano per un buon tratto e non lasciano scampo alle vittime, che possono esserne letteralmente tagliate in due come da un colpo di forbici.



Carnivori agguerriti sono anche le larve, che però non cacciano in movimento ma mediante una curiosissima tecnica di agguato, per la quale la forma del loro corpo si è modificata vistosamente: osservate al riguardo le illustrazioni a tempera qui di seguito, che si riferiscono alla specie più diffusa in pianura e alle basse altitudini, la Cicindela campestris (vi anticipo che le due tavole sono tratte da uno splendido libro divulgativo d’altri tempi sulla vita dei Coleotteri, Caccia grossa fra le erbe, del quale riparlerò alla fine di questa chiacchierata).

Il vermiciattolo che nasce dall’uovo deposto in primavera nel terreno si scava come tana una galleria cilindrica verticale profonda una ventina di centimetri; il corpo è indifeso ma il protorace e la testa, armata di grandi mandibole a falce disposte verticalmente, sono corazzati e insieme chiudono con precisione l’imboccatura del sotterraneo. La larva attende immobile per ore e ore finché un insettino o un ragno passa sopra il tappo vivente: allora il predatore lo afferra e si lascia cadere con il suo bottino in fondo alla galleria.



Larva di Cicindela campestris nella sua galleria (spaccato).
I due uncini sulla gobba della larva le servono per ancorarsi nel caso in cui una preda robusta rischiasse di trascinarla fuori dalla tana.
Tavola di Mario Sturani, da "Caccia grossa fra le erbe".


Questa viene man mano ingrandita e approfondita col crescere dell’animaletto, che in autunno ne chiude lo sbocco e si rifugia sul fondo, a passare la stagione fredda in una specie di letargo. In primavera riprende la solita vita fino all’autunno successivo, epoca in cui la larva, che dalla nascita ha subito tre mute, è finalmente pronta per la metamorfosi. Blocca di nuovo l’ingresso della galleria e a una certa profondità la allarga facendone una celletta, in cui si immobilizza per trasformarsi prima in pupa (l’equivalente della crisalide delle farfalle) e poi in insetto perfetto. Quest’ultimo dopo una breve puntata all’esterno torna a interrarsi per svernare; ricompare nella primavera seguente, cacciando, riproducendosi e vivendo fin verso la fine dell’estate.

Pupa e spoglia larvale (vecchia pelle della larva) di Cicindela campestris nella celletta in cui avviene la metamorfosi (spaccato).
Tavola di Mario Sturani, da "Caccia grossa fra le erbe".




Il termine Cicindela ci è giunto dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio, grande naturalista romano del I secolo, che però chiamava in questo modo la lucciola. Per quanto io ne sappia, l’unico studioso che non si sia limitato a riferirlo ma abbia tentato di ricostruire l’origine della parola fu nel 1917 l’entomologo tedesco Schenkling, secondo il quale Cicindela è da ricollegare al verbo latino candère, risplendere (da cui provengono anche candela, candore ecc.), con il raddoppiamento della sillaba iniziale per indicare azione intensiva e il conseguente cambio della vocale da a in i, secondo un’altra regola della lingua. Insomma, il nome della Cicindela di Plinio significa “molto splendente” o “che non cessa di splendere” e per questo oltre che alla lucciola è stato più tardi attribuito da altri autori a diversi Coleotteri dai colori metallici, come le Cetonie o le Cantaridi. Finalmente, nel ’700 Linneo lo riprenderà per applicarlo in modo ufficiale e definitivo agli insetti di cui stiamo parlando.

E ora finiamo di classificare il soggetto delle foto di Roberto, che lo ha incontrato sul Legnone intorno ai 2200 m di quota. Si tratta della Cicindela gallica, una specie che i naturalisti, con un termine specialistico, definiscono eualpina (dal prefisso eu- che nel solito greco antico significa “bene, proprio, davvero”). Abita cioè esclusivamente le Alpi, tra i 1500 e i 2700 m, dalle Basses Alpes francesi fino al Tirolo e alla Baviera meridionale (in Italia la si trova dalle Alpi Marittime fino all’alta valle dell’Adige).





Qualche curiosità su alcune sue parenti esotiche. Le Cicindele contano il maggior numero di rappresentanti nel sud-est asiatico, dove alcune specie, come quelle del genere Tricondyla, vivono nel folto delle foreste. Poiché le larve non possono scavare le loro gallerie nel terreno, continuamente ricoperto dal cadere delle foglie, si sono adattate a ricavarle nei grossi rami marcescenti di alberi morti o malati!

Una Cicindela del Messico emana un gradevole aroma, cosicché le popolazioni locali ne fanno un infuso in alcool per ottenerne uno speciale liquore. Va detto come anche la nostra Cicindela campestris a volte diffonda un profumo che ricorda la rosa o la violetta.

Quanto alle grosse Manticora africane, veramente impressionanti per le mandibole smisurate e il grande corpo tozzo, una di esse compare in un episodio di un romanzo di Jules Verne, Un capitano di quindici anni. Dato che lo scrittore francese si ispirava spesso ad argomenti scientifici ed era un buon conoscitore di storia naturale (basti pensare alle sue accurate descrizioni di fauna marina in Ventimila leghe sotto i mari), nella circostanza non ci sarebbe niente di insolito, se non fosse che in quelle righe l’autore ha probabilmente nascosto uno dei suoi “scherzetti da studiosi”, vale a dire in grado di essere capiti solo da un pubblico competente.

Specifichiamo. Nella vicenda in questione uno dei personaggi, che in Africa è stato rinchiuso dentro un terreno cintato (dove però nessuno lo sorveglia), scopre una possibile via di fuga grazie a una Manticora, della quale per curiosità sta seguendo le peregrinazioni. Dopo averlo guidato verso la salvezza, l’inconsapevole alleato a sei zampe si congeda volando via; ma come sanno gli addetti ai lavori, una Manticora non potrebbe assolutamente farlo, dato che queste grosse Cicindele hanno perso l’uso delle ali.

Permettetemi di concludere con qualche caro ricordo personale. Proprio alla Cicindela campestre è dedicato per intero il primo capitolo del meraviglioso volume che ho già ricordato, “Caccia grossa fra le erbe”, scritto per i ragazzi dal naturalista torinese Mario Sturani nel lontano 1942: ormai da tempo esaurito quando mio padre ne scovò e me ne regalò una copia nel 1953, quel libro ha cambiato letteralmente la mia vita.

Avevo allora sette anni e quelle pagine, che con l’entusiasmo dei bambini lessi e rilessi fino a impararne lunghi brani a memoria, mi stimolarono a dedicare sempre maggior attenzione agli “scarabei” che incontravo durante le passeggiate con papà nelle belle campagne del Piemonte, dove trascorrevo abitualmente le vacanze al paesino dei miei nonni materni. A quindici anni, nel 1962, deciso a fare dell’osservazione dei Coleotteri un serio hobby scientifico incominciai anche a raccoglierli. Pur senza aver mai considerato la collezione in sé e per sé come il mio obiettivo principale continuo ancor oggi, a distanza di oltre mezzo secolo.

Nel 1964 ebbi la fortuna di conoscere di persona l’autore del mio adorato libro: trattandosi di una persona affabilissima, incominciai a fargli visita diverse volte all’anno e con lui nacque un’amicizia che sono orgoglioso di aver vissuto. Mario Sturani, pittore e ideatore di ceramiche d’arte, non era uno scienziato professionista ma si dedicava all’entomologia per pura passione, studiando in particolare i cicli vitali dei Coleotteri Carabidi; in proposito elaborò pubblicazioni apprezzate dagli specialisti di tutto il mondo. E’ famoso tra l’altro per aver riscoperto, negli anni 40 del secolo scorso, una rara, grande e bellissima specie delle Alpi piemontesi allora ritenuta estinta, il Carabus olympiae, che riuscì a far riprodurre in allevamento, descrivendone la completa biologia fino ad allora sconosciuta.

Se Roberto dovesse fornirci lo spunto per un prossimo post fotografando qualche specie di Carabus mi darà modo di riparlare di un grande, indimenticabile maestro.
Giancarlo Colombo


giovedì 4 luglio 2013

Edemeridi, ovvero un argomento che scotta

Tra le foto di Coleotteri che in questo periodo Roberto mi sta passando scelgo quelle di alcuni Edeméridi (Oedemeridae), famiglia che in tutto il mondo comprende un migliaio di rappresentanti, le cui dimensioni vanno dai 5 ai 12 mm circa. Gli adulti si cibano di polline e nettare, mentre le larve sfruttano il legno morto ormai fradicio; meno di una cinquantina le specie presenti nel nostro paese. L’individuo raffigurato nella prima immagine, un maschio, dovrebbe appartenere alla specie Oedemera nobilis, mentre l’esemplare della seconda potrebbe esserne la femmina; uso il condizionale perché classificare un insetto in base alla sola fotografia è impresa tutt’altro che semplice, anzi spesso impossibile se non per sommi capi, data l’estrema somiglianza di molte specie tra loro.
Oedemera nobilis (?), maschio.

Oedemera nobilis (?), femmina
Anche se i nostri soggetti odierni, comuni sui fiori dei prati dalla tarda primavera in poi, potrebbero sembrare abbastanza insignificanti nell’ambito di una panoramica sulle svariatissime e sorprendenti forme dei Coleotteri, in realtà ci permettono di tirare in ballo più d’un argomento interessante. Incominciamo riprendendo un discorso cui avevamo già accennato a proposito degli Elateridi, la forma diversa nei due sessi. 

   Pur variando da una famiglia all’altra, nella gran parte dei casi le differenze riguardano soprattutto antenne, zampe anteriori e mandibole, che nel maschio hanno dimensioni maggiori anche di molto rispetto alla femmina (a volte, come in alcuni gruppi di Scarabeoidei, il ‘sesso forte’ inalbera sulla testa e/o sul pronoto anche corni più o meno spropositati, tanto minacciosi quanto innocui). Sovente anche il volume del corpo dell’animale segue la regola, che peraltro non è generale: in vari gruppi di Coleotteri – tra cui molti componenti dell’importantissima famiglia dei Cerambìcidi – le femmine, pur avendo appendici più ridotte, sono addirittura più grandi dei maschi. 

   Nel caso delle Oedemera, invece, le foto ci mostrano come questi ultimi siano spesso immediatamente riconoscibili dal vistoso ingrossamento delle “cosce” del terzo paio di zampe; e dato che ormai siamo abituati a chiederci il perché dei nomi scientifici, possiamo osservare come in questo caso l’etimologia sia quanto mai chiara e azzeccata. Oedemera viene infatti dal verbo oidéo = essere gonfio e da meròs = femore: “[insetto] dal femore rigonfio”  (attenzione, però: giusto per complicare la vita all’entomologo, lo specifico studioso degli insetti, ci sono anche Edemeridi in cui i femori dei maschi non sono ingrossati).
Maschio di una specie con femori normali?
Dopo averne dedotto che quel tratto della zampa di un Coleottero, anzi di un insetto in genere, porta lo stesso nome dell’osso principale della nostra gamba, approfittiamone per battezzare anche il resto. La descrizione anatomica ci servirà, tra l'altro, per definire un carattere esclusivo degli Edemeridi e di alcune famiglie loro vicine. 

Osserviamo l’esemplare della seconda foto, in cui la struttura degli arti è particolarmente evidente nell’ultimo paio. Sorvolando su due pezzi di piccole dimensioni – qui non visibili – mediante i quali la base del femore si articola alla superficie ventrale del torace, prendiamo in considerazione solo le parti più appariscenti della zampa: all’altra estremità del femore si innesta ad angolo il lungo segmento detto tibia, cui è a sua volta collegata una serie di segmenti più piccoli, denominati complessivamente tarso (l’elemento più lontano dal corpo, diverso dagli altri in quanto porta le due unghiette per la presa, viene distinto col nome specifico di pretarso).


Un maschio

 Una femmina con l’addome gonfio di uova.

Ed eccoci al dunque. Nella maggioranza dei Coleotteri i pezzi che compongono il tarso, tecnicamente tarsòmeri, sono in numero di tre in ognuna delle paia di zampe; nei nostri Edemeridi, invece, le anteriori e le medie hanno un tarsomero in più. Questa caratteristica, condivisa con una quindicina di altre famiglie (ricordiamo che l’intero ordine ne conta circa 120), le ha fatte riunire in una categoria a sé stante, detta degli Eteròmeri: termine che significa letteralmente ‘con parti diverse’. Se siete sopravvissuti fin qui vi spiegherò perché li ho tirati in ballo.

Gli Edemeridi sono chiamati in inglese pollen-feeding beetles, ‘Coleotteri che si cibano di polline’, ma anche false blister beetles, espressione che può essere tradotta con ‘falsi Coleotteri delle vesciche’: denominazione altrettanto precisa, ma che per i più necessita di una spiegazione.


La femmina di un’altra specie indeterminata.

I “veri” Coleotteri delle vesciche sono un’altra famiglia di Eteromeri, i Meloidi, che degli Edemeridi sono parenti molto stretti. Il loro appellativo è dovuto al fatto di contenere una sostanza tossica estremamente irritante, la cantaridina (nome derivato da quello della specie più famosa, la Cantaride), il cui contatto con l’epidermide causa vere e proprie ustioni simili a scottature, con la formazione delle relative bolle. 

Secondo i medici empirici dei secoli fortunatamente passati, questo processo contribuiva a stimolare la guarigione da alcune malattie e ad alleviare certi tipi di dolori. Fu così che la Cantaride o ‘mosca di Spagna’, raccolta in gran numero, essiccata e ridotta in polvere, entrò a far parte di appositi preparati da applicare sulla pelle, i cosiddetti vescicanti, ancora in uso almeno fino alla fine dell’800. Una cura del genere era però quanto mai fastidiosa, tanto che nell’antico dialetto milanese la parola ‘vescicante’ aveva preso anche il senso traslato di ‘seccatore, rompiscatole’. Da bambino, nei primi anni '50 del secolo scorso, feci in tempo a sentir citare il termine (che oggi credo pressoché scomparso) da un anziano milanesone, appassionato cultore dell’ idioma ambrosiano d’altri tempi, il quale riferendosi a una certa persona importuna ne dava a mia madre questa definizione: “Sciura, quell lì l’è un vesigaant”. 



Tornando ai nostri Edemeridi, anch’essi come i loro cugini contengono cantaridina, meritandosi dunque pienamente il nome inglese; attenzione perciò a non schiacciarvene inavvertitamente uno addosso.



Ancora una femmina con uova.
Per inciso e per finire, la Cantaride entrava anche nella composizione di un altro tipo di farmaci, da prendere per bocca, cui si attribuiva la facoltà di aumentare la potenza sessuale maschile. Se ai nostri giorni di questo effetto si mettono in discussione perlomeno la regolarità e l’intensità, è fuor di dubbio che l’ingestione di cantaridina, anche in piccolissime dosi, provoca gravi e irreparabili danni ai reni; del resto diversi scrittori greci di storia naturale, tra cui Aristotele, raccontano come un erbivoro che avesse ingerito insieme con l’erba del pascolo un non meglio specificato Meloide fosse condannato a morire di una gravissima e presumibilmente dolorosissima infiammazione interna. 

Ma dell’insetto che in greco antico era detto “il bruciabovino” e delle successive vicende di tale nome, oggi attribuito a torto a tutt’altra famiglia di Coleotteri (completamente innocui), riparleremo quando Roberto ci regalerà qualche scatto in proposito.

Giancarlo Colombo








domenica 9 giugno 2013

Elateridi: i coleotteri con l’elastico

Roberto mi ha passato un paio di belle immagini di Coleotteri da lui fotografati in Grigna, con preghiera di classificarglieli. Si tratta del Selatosomus aeneus e della Ctenicera virensentrambi appartenenti alla famiglia degli Elatèridi, particolarmente interessante perché i suoi componenti sono dotati di uno straordinario meccanismo loro esclusivo, mediante il quale possono (tra l’altro) rigirarsi sulle zampe se si ritrovano capovolti “a pancia in su”. Dato che l'evoluzione non fabbrica un congegno così complesso per un obiettivo tanto semplice, molto probabilmente il meccanismo suddetto ha lo scopo assai più importante di sconcertare gli eventuali predatori, aiutando addirittura l’insetto a sgusciare via se viene afferrato. 
Selatosomus aeneus
Diversi rappresentanti della famiglia sono comuni nei prati e per i bambini di altri tempi, che vivevano molto più a contatto con la natura, uno di loro poteva costituire un insolito trastullo: mettendolo adagiato sul dorso l’Elateride raccoglie le zampe, sembra inarcarsi sulla schiena e all’improvviso scatta in un “salto” che in certe specie può raggiungere anche qualche decina di centimetri. Lo scatto, ripetuto finché l’animaletto non si ritrova rigirato dalla parte giusta, produce un distinto rumorino secco, da cui il nome inglese di click beetles dato a questi Coleotteri, espressione in cui beetle è l’equivalente del nostro “scarabeo” e click vuol dire allo stesso tempo “scatto” e “clicchettio”.
Ctenicera virens
(Attenzione, però: beetle in inglese non ha mai significato “scarafaggio”, insetto dell’ordine dei Blattoidei, che con i Coleotteri non hanno niente a che vedere. Per inciso, quando i famosi Beatles inventarono il loro nome - che si pronuncia esattamente come beetles - fecero un gioco di parole tra il termine che indica i Coleotteri e il verbo (to) beat = ‘battere il tempo, suonare con un determinato stile’; non immaginando certo che qualche giornalista italiano ignorante di scienze li avrebbe disgraziatamente battezzati “gli scarafaggi” anziché “gli scarabei”! Per chi ne fosse curioso, in inglese lo scarafaggio - il bulóo del nostro dialetto  - si dice cockroach, dallo spagnolo cucaracha. Restando in ambito musicale, questo era il soprannome dispregiativo che i rivoluzionari messicani di Pancho Villa davano al suo nemico presidente Huerta, da loro preso in giro con la famosa canzoncina… ma basta così).


Tornando allo scatto verso l’alto degli Elateridi, data la posizione in cui avviene non è ovviamente dovuto all’attività muscolare delle zampe. Per tentare di descrivere in breve e molto grossolanamente il loro marchingegno diremo che sulla superficie inferiore di una parte dell’insetto - il protorace, subito dietro la testa - c’è una specie di dentino, il quale al rilasciarsi improvviso di certi muscoli slitta di colpo in un alloggiamento del vicino mesotorace. L’effetto è una specie di contraccolpo che determina il “salto”; il meccanismo è così insolito e complesso che alcuni suoi aspetti non sono ancora stati del tutto chiariti dai fisici! 




Il nome scientifico del genere Elater, da cui prese nome l’intera famiglia, fu coniato nel ’700 dal solito Linneo e si ricollega alla radice del verbo greco elào = spingere, distendere; per cui “in grado di distendersi” si dice elastikòs. E’ curioso pensare che gli antichi Greci sarebbero stati in grado di capire benissimo questa parola oltre duemila anni prima che in Europa fosse conosciuta la pianta denominata dai discepoli di Linneo Hevea brasiliensis, l’albero della gomma.

La famiglia degli Elateridi, di aspetto molto omogeneo, è piuttosto cospicua, superando le 9.000 specie sinora classificate nel mondo (in Italia sono oltre 220), le cui dimensioni vanno da pochi mm a circa 7 cm di lunghezza nei più grandi rappresentanti tropicali. Le larve, cui la forma cilindrica molto allungata e la corazza a segmenti assai robusta hanno valso il nome di “vermi fil di ferro”, vivono sotto terra o nel terriccio vegetale, in cui la madre depone le uova e il loro sviluppo dura di solito due anni; possono essere sia carnivore (attaccando in particolare le larve di altri Coleotteri) sia vegetariane e in tal caso sono dannose soprattutto ai cereali, di cui rodono le radici. Gli adulti frequentano erbe e fiori, nutrendosi di polline o sostanze vegetali.



Alcune specie di Elateridi tropicali del centro e sud America, appartenenti al genere Pyrophorus, sono in grado di emettere luce. Detti localmente cucujos o cocuyos, hanno ai lati del pronoto (la superficie superiore del protorace) due aree circolari che diffondono una luminosità verde chiaro simile a quella delle lucciole; in alcune regioni gli indios che devono muoversi nella foresta di notte si legano ai sandali o direttamente alle dita dei piedi, per rischiarare il cammino, alcuni di questi grossi insetti (dai 2 ai 4 cm di lunghezza) completamente innocui, lasciandoli poi in libertà “dopo l’uso”. Al riguardo rammento un gustoso aneddoto riportato da un libro divulgativo francese di fine ’800: nel 1776, un cucujo giunto dall’America a Parigi probabilmente nascosto in un carico di legname si mise a volare di notte tra le case del sobborgo di Saint-Antoine, spargendo il panico tra gli abitanti!



Un ultimo appunto. I naturalisti del ’700, nell’escogitare i nomi di animali e piante che classificavano, erano spesso poetici: se osservate in particolare la seconda delle foto di Roberto vi sarà chiaro il motivo per cui gli Elateridi ricevettero anche la denominazione di Pettinicorni. Come già nel caso dei ventagli di lamelle del maggiolino, anche le antenne di varie specie di questa famiglia sono più sviluppate nei maschi. Costituiscono un appariscente carattere di dimorfismo sessuale, vale a dire la presenza nei due sessi di forme diverse, fenomeno presente in molti animali: l’aspetto delle femmine, più importanti per la riproduzione della specie, deve attirare meno i predatori, mentre i maschi, come appunto l’esemplare di Ctenicera della foto, devono essere più vistosi per farsi scegliere come partner.


Giancarlo Colombo

domenica 5 maggio 2013

maggio = maggiolino

Oggi ho trovato tra le erbe un bel maggiolino. Nulla di strano, siamo a maggio; ma di questi tempi, vederne uno non è più così facile. Anche gli insetti, come tutti i gruppi di viventi, stanno infatti pagando un prezzo altissimo alla “modernità” che distrugge o avvelena un sempre maggior numero di ambienti naturali. 



Ma ritorniamo al maggiolino. Visto che di coleotteri non mi intendo ho invitato l’amico Giancarlo, che li raccoglie e li studia da molti anni, a darmi e a darvi qualche notizia al riguardo.



L’esemplare delle foto di Roberto è un maschio (lo si riconosce dai mazzetti di lamelle che formano le antenne, più grandi di quelli della femmina) del Maggiolino comune, scientificamente Melolontha melolontha. Per chi non lo avesse mai visto dal vero, è lungo fino a 3 cm.


La specie fu classificata nel 1758 da Linneo, il grande naturalista svedese che inventò il doppio nome latino di piante e animali, col nome di Scarabaeus melolontha; in seguito (intorno ai primi dell’800) il genere Scarabaeus, divenuto troppo vasto, venne suddiviso in molti altri, per ospitare i quali fu creata un’entità più ampia, chiamata famiglia. Al giorno d’oggi, l’intero ordine dei Coleotteri comprende circa 120 famiglie.  


[ Per inciso, la caratteristica più vistosa dei Coleotteri è di avere due paia di ali il primo dei quali, rigido, costituisce un astuccio di protezione che si chiude a proteggere il secondo paio, tenuto ripiegato quando l’animale non vola: ottimo esempio la Coccinella. Altre due caratteristiche principali sono la bocca fatta per masticare – e non per succhiare, come quella a tubo delle farfalle, o pungere, come nelle zanzare, o lambire, come nelle api – e le metamorfosi complete. Quest’ultima espressione significa che durante la sua vita l’insetto passa attraverso quattro stadi totalmente diversi: uovo, larva, pupa (l’equivalente della crisalide delle farfalle) e adulto. 

Dal punto di vista biologico, i Coleotteri sono un modello così riuscito da costituire il gruppo animale di gran lunga più numeroso del pianeta, con oltre 400.000 specie sinora descritte ma probabilmente almeno il doppio ancora da conoscere… sempre che arriviamo a scoprirle prima di farle estinguere. Visto che Roberto mi ha pregato di citare anche qualche curiosità o aneddoto, vi riporto una frase del grande – e spiritoso – biologo inglese Haldane, scomparso nel 1964. A un giornalista che intervistandolo gli chiedeva se i suoi studi gli avessero suggerito qualche possibile caratteristica di Dio, lo scienziato rispose: “i miei studi non mi permettono nemmeno di dirle se esiste o no. Ma una cosa le assicuro: se c’è, deve avere una smodata passione per i Coleotteri” ]. 


La famiglia cui appartiene il maggiolino, derivata dal suddetto genere Scarabaeus, ricevette a suo tempo il nome di Scarabaeidae. Era tra le più vaste dell’intero ordine dei Coleotteri ed essendo diventata anch’essa troppo estesa – le specie sinora classificate nel mondo sono più di 30.000 –  da qualche decennio è stata ‘promossa’ al rango di super-famiglia degli Scarabaeoidea (poco più di 350 le specie italiane), mentre quelle che un tempo erano le sue sottofamiglie sono state trasformate in altrettante famiglie, ciascuna comprendente un minor numero di componenti. 
Tra esse gli attuali Melolonthidae, un tempo sottofamiglia Melolonthinae, che nel nostro paese comprendono una novantina di specie, le cui misure variano da circa mezzo centimetro a 4 cm. Di queste ultime dimensioni è il grande, non comune e bellissimo Polifilla o Maggiolino marmoreggiato dei pini (nero o marrone rossiccio con ghirigori di scagliette bianche e, nel maschio, i mazzetti di lamelle delle antenne sviluppatissimi, a forma di eleganti ventagli ricurvi).
Il genere Melolontha da noi conta 4 specie, l’ultima delle quali, Melolontha sardiniensis, esclusiva della Sardegna come dice il nome, è stata scoperta e classificata solo nel 1999. Melolontha melolontha, diffusa in parte dell’Europa meridionale e in quella centro-orientale (da noi la si trova dal sud delle Alpi fino al Lazio), era un tempo comunissima, fino a costituire in certe annate un vero flagello.


Eccone il ciclo vitale. La femmina depone le uova nel terreno, dove la larva si nutre di radici (in particolare di piante erbacee), crescendo per tre anni prima di raggiungere le dimensioni necessarie alla trasformazione in adulto. A maggio quest’ultimo sbuca da sotto terra e a sera vola di albero in albero rodendo le foglie giovani, ma in mancanza di foglie attacca qualunque vegetale abbastanza tenero. La durata dello sviluppo della larva spiega perché l’insetto apparisse in gran numero ogni tre anni; qualche ritardatario aveva comunque dato luogo a generazioni che comparivano anche nel periodo intermedio, sia pure con un numero di individui molto minore.

Larve di Maggiolino - Melolontha melolontha L. (foto www.sekano.es)
www.agraria.org

I maggiolini abbondarono fino all’epoca della mia adolescenza, intorno agli anni ’60: il padre di un mio amico lecchese gli raccontava come in altri tempi si ricompensassero con piccole mance i bambini incaricati di raccoglierli, che ne riempivano borse intere. Nei secoli passati si ricordano addirittura vere carestie causate da questi scarabei, come per esempio nel ’600 in una contea irlandese, dove la popolazione fu costretta a sopravvivere mangiandoli, dato che avevano finito col fare piazza pulita di ogni pianta commestibile sia coltivata sia spontanea.

In casi particolarmente gravi, i maggiolini – come bruchi o altri insetti dannosi – nel Medioevo venivano portati in tribunale, dove erano processati per i danni arrecati alla campagna. Si ha notizia di un processo avvenuto in Svizzera in cui i coleotteri, nonostante la difesa di un brillante avvocato, furono condannati a lasciare immediatamente il territorio pena la scomunica. Ovviamente rimasero dov’erano, continuando a fare i loro guasti; e il fatto che li facessero da scomunicati non dovette costituire per i contadini una gran consolazione.

Il nome comune italiano dell'insetto è particolarmente appropriato, in quanto di regola gli esemplari più precoci non compaiono prima della fine di aprile e pochi ne restano in circolazione dopo gli inizi di giugno. Di origine e forma chiaramente toscane, “maggiolino” non solo ha buona diffusione in tutte le regioni del nostro paese in cui la specie è presente, ma a quanto pare è ben radicato nella lingua parlata: prova ne sia il fatto che è sopravvissuto alla scomparsa dello scarabeo cui si riferiva in origine.

Oggi infatti vengono spesso chiamati maggiolini certi parenti relativamente stretti della Melolontha melolontha ma notevolmente più piccoli, appartenenti, per chi volesse saperne di più, ai generi Rhizotrogus e Amphimallon. Oltre che nella classificazione, l'inesattezza è prima di tutto nell'indicazione di tempo, dato che questi post-maggiolini, almeno nel nord della penisola, volano nelle belle serate di giugno inoltrato o addirittura in luglio; varie specie dell’Italia centrale e meridionale circolano fino a settembre e ottobre. Superfluo dire che l’estrema rarefazione del “vero” maggiolino è effetto dell’inquinamento, dei diserbanti e degli insetticidi; di questi ultimi, secondo dati di qualche anno fa, nella sola Italia si è impiegato nel 2008 un terzo del quantitativo usato nell’intera Europa.    
    
Per quanto riguarda i nomi dialettali dell’insetto, mi limito a citare quello che ho sentito usare più spesso a Lecco, dove sono nato: panigaröla. Riguardo al suo significato e alle sue origini, tutto quello che posso offrirvi è una mia ipotesi; vi prego dunque di accettarla, come si dice, con beneficio d'inventario.

Panigàda si chiama dalle nostre parti l'infiorescenza del sambuco, che incomincia a sbocciare verso la fine di aprile ed è visitata da varie specie di Coleotteri Scarabeoidei amanti delle sostanze zuccherine, tra cui in particolare la ben nota Cetonia, dal bel colore verde metallico, lunga fino a un paio di centimetri o poco più. Se ne fosse attirato anche il maggiolino, saremmo a cavallo: la qualifica di panigaröla sarebbe giustificata dal fatto che lo si trova sulla panigàda. Ma le Melolontha non frequentano affatto i fiori, essendo, come già detto, specifiche divoratrici di foglie.

Panigaröla si applica però anche alla Cetonia, facendomi sorgere il dubbio che in origine la vera titolare del nome potesse essere lei, ai sambuchi fioriti particolarmente affezionata: il significato del vocabolo, con la solita imprecisione della lingua popolare nei confronti degli insetti, si sarebbe poi allargato a designare anche (e soprattutto) il suo cugino dannoso, oggetto di conversazione ben più frequente e importante per coloro che vivevano del lavoro dei campi. 

E visto che ci siamo occupati di etimologia, da dove viene il nome scientifico di Melolontha creato da Linneo?
Va detto innanzitutto che il naturalista, come tutte le persone colte del suo tempo, aveva studiato il greco e il latino; e nei classici greci era andato a cercare i nomi di molti animali, nomi che poi, in forma latinizzata, attribuiva alle specie che classificava.

In un verso della commedia Le nubi, Aristofane – il più grande poeta satirico dell’antica Grecia, nato intorno alla metà del V secolo a. C. – paragona la fantasia “alla melolónthe che il fanciullo fa volare attaccata a un filo”. Sappiamo solo che la parola indicava un Coleottero, ma ignoriamo quale; e dato che (se ben ricordo) il maggiolino non è presente in Grecia, o perlomeno non vi è comune, gli studiosi ritengono che il termine melolónthe indicasse invece la Cetonia.

Il maggiolino è però presente nel sud della Svezia, dove viene chiamato Ollonborre. Evidentemente, i bambini svedesi (e forse da piccolo lo stesso Linneo) lo facevano volare attaccato a un filo, come anch’io ho visto fare negli anni ’50 al paese dei miei nonni materni, nelle campagne del Piemonte; lo studioso deve aver creduto che melolónthe significasse maggiolino e così ha attribuito a quest’ultimo il nome latinizzato di Scarabaeus melolontha.

Concludo con un’altra curiosità riguardante i dialetti. Un appassionato e minuzioso raccoglitore di memorie torinesi, Alberto Viriglio, ai primi del ’900 riporta nel suo libro Vecchio Piemonte una formula in rima che a Torino e dintorni i bambini dei tempi in cui lo era lui, nato nel 1851, rivolgevano al maggiolino (chiamato in dialetto gìvu) praticando proprio quel gioco. Dopo aver legato l’insetto per una zampa gli si intimava: Givu givòla, marcia a scola!, maggiolino maggiolinetto – ma la finale “òla” è tipicamente canzonatoria – fila a scuola!  

In caso di rifiuto bastava lanciare il coleottero in aria, in modo che nel sentirsi ricadere aprisse le ali e prendesse il volo. Ma la sua apparente libertà non durava a lungo. Dopo averlo lasciato ronzare per un po' seguendolo come fosse un cane al guinzaglio, il suo carceriere lo tirava indietro con un brusco strappo, impartendogli il contrordine: La scola l’é sarà, turna a cà! La scuola è chiusa, torna a casa!

Sia pure senza l’accompagnamento della cantilena, dicevo poco fa che quel gioco ho fatto in tempo a vederlo praticare anch’io. Ma il mondo cui apparteneva è ormai lontano quanto Viriglio o Linneo o lo stesso Aristofane: perduto per sempre.
 Giancarlo Colombo.