martedì 13 ottobre 2015

Appuntamento con l’autunno: l’alpe Ventina

Con l’autunno la vegetazione cambia abito e i boschi assumono le calde tonalità tipiche di questa stagione. Si tratta di un’occasione da non perdere e di un stimolo per regalarsi una giornata all’aria aperta. Su questo blog in passato sono già stati proposti facili percorsi, alla portata di tutti (LINK e LINK), per godersi questo momento magico ed oggi la meta proposta è in Valmalenco (SO): si parte da Chiareggio, frazione di Chiesa Valmalenco (SO) per raggiungere i contigui rifugi Gerli-Porro e la bella alpe Ventina posizionata in uno splendido scenario di alta montagna.2015-10-11_Chiareggio-Porro_Valmalenco_002

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Baite nei pressi di Chiareggio

 

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l nostro percorso, riconducibile alla filosofia “Itinerari del camminare piano” parte dalla piccola località Chiareggio
(m. 1612), dove in poco più di un’ora, una comoda strada sterrata ci porta ai rifugi Gerli-Porro. Questo percorso ha inizio nelle vicinanze della chiesetta di Chiareggio dedicata a Sant’Anna.

 

Chiesa dedicata a Sant’ Anna


Un brevissimo tratto di sentiero ci conduce al ponte sul torrente Mallero e sull’ampia mulattiera che ci porta direttamente alla meta.

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Tratto del comodo sentiero per il Rifugio Gerli-Porro. In questa stagione al mattino gran parte del tracciato di fondovalle è pressoché in ombra e si avverte una fresca temperatura.

 

 

 

 

Il percorso sulla destra del torrente si sviluppa in gran parte nel bosco con alcuni scorci tra la vegetazione sul versante opposto della valle e su alcune cime: tra queste il Monte Forno (3214m), Cima di Rosso (3366) e Cima di Vazzeda (3301).

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Monte Forno (3214)

 

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Cima di Rosso (3366) Cima di Vazzeda (3301)

 

Il giallo inteso dei larici risalta ai raggi del sole.

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La mulattiera sale in quota e, nei pressi dei rifugi Gerli-Porro, si fa un po’ più sassosa.2015-10-11_Chiareggio-Porro_Valmalenco_152

 

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I rifugi Gerli-Porro del CAI Milano (1965 metri). Si tratta di due rifugi contigui: il primo fu edificato nel 1936 e intitolato a Augusto Porro, alpinista travolto da una slavina sul Piz Corvatsch insieme alla sorella Lisetta nel 1935. Il secondo, di epoca più recente inaugurato nel 1992, fu edificato per volere della Signora Maria Rota Gerli, in ricordo del marito Amerigo.

 

 

 

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Nei pressi dei rifugi Gerli-Porro sorge una cappelletta dedicata ai caduti in montagna. Sono visibili anche le indicazioni per il sentiero glaciologico Vittorio Sella, percorso molto interessante e di facile accesso ma di cui parleremo più approfonditamente un’altra volta.

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Una delle targhe poste ad indicare dove arrivava il fronte del ghiacciaio.

 

Con l’arrivo al rifugio termina il tratto in salita e il sentiero ora panneggiante, attraversa un’ampia valle: siamo all’inizio dell’Alpe Ventina e al rifugio Ventina (m. 1975). 

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Baite all’alpe Ventina

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Rifugio Ventina

 

 

 

Il pianoro dell’Alpe Ventina è circondato da vette importanti come le cime del Duca, Rachele, Sassarsa, Giumellini e Cassandra. Il Monte Disgrazia, la Punta Kennedy e il Pizzo Ventina.

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l fronte del ghiacciaio Ventina

Alcune immagini della suggestiva grande piana morenica occupata fino a poco tempo fa dal ghiacciaio Ventina.

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Lasciata l’alpe e i vari rifugi rientriamo percorrendo parte del sentiero fino alla deviazione “Forbesina”. Il sentiero scende velocemente verso il greto del fiume e, attraversato il torrente, raggiungiamo la caratteristica alpe Forbesina da cui una larga strada sterrata ci ricondurrà a Chiareggio.

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Tratto del sentiero verso l’alpe Forbesina



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Baite all’alpe Forbesina


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L’ampia strada che conduce a Chiareggio




Punto di partenza è Chiareggio, noto centro di villeggiatura e perla dell'alta Valmalenco che dista 14 km da Chiesa Valmalenco e 28 km da Sondrio.

mappa  LINK

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martedì 6 ottobre 2015

Cetonie: scarabei che volano senza aprire le ali

“Impossibile, dite?” chiede Giancarlo, al quale lascio subito il post di oggi. Il nostro amico continua:

Avete ragione, era un piccolo trucco per incuriosirvi. Peraltro il titolo, se non viene preso alla lettera, è pura verità.
Prima di illustrarvela vi rivelerò dove sta il tranello.
Come ormai ben sappiamo, i Coleotteri hanno due paia di ali, il primo dei quali ha perso la funzione originaria. Si è infatti ispessito e indurito per trasformarsi in una coppia di astucci di protezione, le elitre, che al momento del decollo l’insetto spalanca (tenendole poi aperte per tutta la durata del volo) per poter distendere e mettere in moto il secondo paio.
A rigore di termini, se considerate in riferimento alla loro funzione le ali “vere” sono queste ultime, grandi e membranose, che quando non sono usate vengono tenute ripiegate sotto le elitre chiuse: chi non avesse mai visto decollare una coccinella osservi la prima foto, nella quale una specie di cui diremo tra poco si invola seguendo appunto la prassi descritta.

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Trichius rosaceus che spicca il volo.

Esiste però anche un’altra modalità, praticata da un importante gruppo di Coleotteri i cui rappresentanti volano invece “senza aprire le ali”: affermazione parziale, se volete, ma inoppugnabile se riferita alle sole elitre, che per quanto modificate pur sempre ali sono. Ai proprietari, del resto, aprirle è materialmente impossibile, dato che là dove le stesse vengono a contatto l’una con l’altra lungo il margine interno (tecnicamente definito sutura elitrale) sono tenacemente saldate tra loro.
Dunque?
Niente paura, gli interessati praticano un efficacissimo sistema alternativo: le sollevano in blocco quel tanto che basta per far fuoruscire lateralmente il secondo paio, mettendolo così perfettamente in grado di funzionare. In proposito, la foto che segue è più eloquente di qualunque descrizione.

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Esemplare di Cetonia aurata preparato con il secondo paio di ali estroflesse lateralmente, come durante il volo.
Da Wikipedia. Didier Descouens, opera propria.

Cetonia

 

Avrete riconosciuto l’insetto raffigurato, che ritroveremo alla fine del post: è la ben nota Cetonia dorata, comune sulle rose soprattutto in giugno, sulla quale vi propongo anche un mio vecchio disegno a china (chi segue le mie chiacchierate sa come io ami riportare qualche cenno sull’origine e il significato dei nomi, ma stavolta c’è poco da dire. Il vocabolo Cetonia, coniato nel 1775 dall’entomologo danese Fabricius, è di origine ignota e al riguardo lascio perdere vari “forse da ricollegare a”).

 

 

Cetonia aurata. Disegno di Giancarlo Colombo.

Prima di continuare inserisco un’immagine che riepiloga efficacemente quanto abbiamo detto sinora. Proveniente da un testo giapponese, l’illustrazione raffigura due giganteschi Coleotteri tropicali, una Cetonia africana e uno Scarabeo rinoceronte asiatico, che volano nei due diversi modi di cui si è parlato.

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Come volano un Cetonide (Goliathus goliatus) e un Dinastide (Chalcosoma atlas).
Da Y. Yasuda – S. Okajima, Beetles Of The World, Gakken, Tokyo, 1980.

Fino a qualche decennio fa, l’insieme cui entrambe le specie appartengono era chiamato famiglia degli Scarabeidi e le due entità erano ascritte a quelle che venivano considerate due diverse sottofamiglie della medesima (Cetonini e Dinastini). Ultimamente, però, come si è già detto a proposito del maggiolino, diverse famiglie di dimensioni divenute ormai smisurate – come appunto gli Scarabeidi, con oltre 30.000 specie sinora descritte – sono state elevate al rango di super-famiglia, con la conseguenza che le loro antiche sottofamiglie hanno per così dire fatto carriera anch’esse, ricevendo la qualifica di famiglie a sé stanti (nel caso di cui sopra hanno assunto il nome di Cetonidi e Dinastidi). Allo stato attuale delle conoscenze, i primi contano intorno alle 3600 specie nel mondo, una trentina delle quali sono presenti in Italia.

 

Il Trichius rosaceus raffigurato più sopra appartiene al gruppo dei Trichiini, cui nell’ambito degli attuali Cetonidi un tempo era assegnato il livello sistematico di tribù e che oggi sono stati “promossi” a sottofamiglia (annoto di passaggio che nonostante la stretta parentela con le Cetonie propriamente dette, a differenza delle stesse i Trichiini sono perfettamente in grado di aprire le elitre, tanto che ne abbiamo scelto uno proprio come esempio al riguardo). In questo caso la derivazione del nome, coniato ancora da Fabricius, non potrebbe essere più chiara: nel solito greco antico, thrix significa capello, per cui Trichius vale più o meno “capellone”. Per constatare come l’etimologia sia pienamente giustificata si osservino nelle immagini qui sotto sia il T. rosaceus che il suo stretto parente T. fasciatus, nei quali, oltre alla “capigliatura” di sottile peluria giallina o dorata su testa e pronoto (la superficie superiore del torace), una vera e propria pelliccetta ricopre gran parte del corpo dell’insetto, con l’eccezione della superficie delle elitre.

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Trichius rosaceus, femmina. Il sesso si riconosce dalla peluria del pronoto più rossiccia rispetto al resto del corpo e dalle due fasce laterali  giallo chiaro che si intravedono sotto la stessa, mancanti nel maschio.
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iugno 2015, Piani dei Resinelli (LC), m 1300.

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Trichius fasciatus. Si distingue facilmente dal congenere per la fascia nera vicina al bordo posteriore del pronoto, la quale si estende trasversalmente su tutta l’elitra anziché essere limitata a una macchia sul margine esterno, come nel 
T. rosaceus.
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iugno 2015, Alpe Giumello (LC), m 1500.


Questi piccoli Cetonidi (il rosaceus misura dai 9 ai 13,5 mm e il fasciatus, mediamente un poco più grande, dai 10 ai 14,5) sono abbondanti dalla fine della primavera a gran parte dell’estate in zone montane, dove gli adulti frequentano i fiori, in cerca del nettare e polline di cui si nutrono; le larve si sviluppano invece nel legno morto in disfacimento o nel terriccio vegetale, prediligendo quello che riempie i cavi di vecchi alberi. Come vedremo anche più avanti, tale costume è tipico dell’intera famiglia.

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In questo esemplare di Trichius fasciatus la visione
laterale mette particolarmente in evidenza la peluria
su testa e pronoto, che ha valso al genere il suo nome.

 

 

 

 

In un altro intervento su Libereali ho parlato del mimetismo batesiano, fenomeno per cui una specie del tutto innocua presenta aspetto simile a quello di un’altra in qualche modo pericolosa, venendo così lasciata in pace dagli eventuali nemici: è il caso dei Trichius, la cui livrea gialla e nera ricorda le vespe e la pelosità pronunciata richiama quella di certe api selvatiche, o dei bombi. Ai nostri occhi le somiglianze sono relative, oltre che disgiunte tra loro; sembra però che la mescolanza ottenga l’effetto complessivo di ingannare i predatori, come nel caso di molti altri animali definiti dagli studiosi “sosia imperfetti”.

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A causa della fascia nera più o meno interrotta o ridotta intorno allo scudetto (scientificamente scutello) che divide le elitre alla loro base, individui come questi due venivano un tempo denominati “
Trichius fasciatus aberrazione scutellaris”.
Oggi li si considera delle semplici variazioni individuali della specie e la categoria detta aberrazione, che appesantiva non poco la classificazione soprattutto tra gli Insetti, è stata abolita.

E ora dedico una cospicua parte del post a un Trichiino che mi offre ottimi spunti per proporvi più di un discorso interessante, tra cui quello, purtroppo molto attuale, della perdita della biodiversità. La specie in questione è il più grande Cetonide della fauna europea, potendo superare i tre centimetri e mezzo di lunghezza; porta il nome di Osmoderma eremita e negli ultimi decenni si è fortemente rarefatto, al punto che nel 1997 è stato dichiarato specie protetta, con relativo divieto di raccolta, nell’intera UE, dove in alcuni paesi sembra addirittura estinto (delle cause della sua progressiva scomparsa diremo in dettaglio più avanti). Personalmente l’Osmoderma mi regalò indimenticabili emozioni alla fine degli anni 60 del secolo scorso, quando dopo varie stagioni di ricerche infruttuose – già allora si trattava di un insetto tutt’altro che comune – lo incontrai finalmente nelle campagne del paesino dei miei nonni materni, in provincia di Torino, dove ero sicuro della sua presenza in base a vari indizi su cui non mi dilungo.

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Osmoderma eremita, maschio e femmina. I due esemplari, raccolti in Piemonte nel 1968 e 1969,
raggiungono le massime dimensioni riportate dai testi, intorno ai 37 mm.
Collezione Giancarlo Colombo.

Il coleottero era stato classificato nel 1763 dal naturalista trentino Scopoli, uno dei primi seguaci del metodo linneano del doppio nome latino, nell’opera intitolata Entomologia Carniolica, che può essere considerata l’atto di nascita della moderna entomologia italiana. Avendo rinvenuto l’insetto nelle cavità di un vecchio albero, situazione che gli aveva ricordato un eremita rifugiato nella sua grotta, l’autore lo aveva battezzato appunto Scarabaeus eremita (Scopoli in proposito dice testualmente: “Reperi in cavo trunco Pyri communis non semel”, l’ho trovato più di una volta in un tronco cavo di Pero). Poiché ho la fortuna di possedere una copia dell’opera in questione ve ne riproduco il frontespizio, accanto a un ritratto dello studioso.

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Frontespizio dell’Entomologia Carniolica, l’opera del 1763 in cui Scopoli descrive e denomina lo Scarabaeus eremita. Giovanni Antonio Scopoli. Da Wikipedia (licenza Pubit).

Qualche decennio più tardi il genere Scarabaeus, come quasi tutti quelli coniati da Linneo, in seguito alla scoperta di un sempre maggior numero di specie era divenuto troppo eterogeneo, tanto che gli studiosi ne smistarono gli appartenenti in una serie di generi meno vasti, definiti in base a caratteri più ristretti. Fu così che l’insetto di cui stiamo parlando ebbe il nome di Osmoderma, istituito nel 1835 dal francese Serville e valido a tutt’oggi.

Letteralmente il termine significa “cuoio odoroso” e per spiegarne il senso dobbiamo menzionare una caratteristica davvero inconsueta del nostro scarabeo: emana un intenso profumo fruttato che ricorda quello delle susine mature e che nel sud della Francia gli ha valso l’antico nome popolare di pique-prune, pungi-prugna. Il contadino che secoli fa lo escogitò, forse dopo aver visto un Osmoderma inebriarsi della polpa in fermentazione che usciva da una prugna bacata o crepata (come fanno spesso le sue cugine Cetonie e altri Coleotteri amanti delle sostanze zuccherine), dovette pensare che l’insetto avesse in qualche modo succhiato il suo insolito aroma dal frutto.
Chiudiamo la catena con l’ultimo anello. Tutti i testi ottocenteschi di divulgazione entomologica che posseggo, una mezza dozzina tra italiani e stranieri, affermano che l’Osmoderma emette un forte sentore "di cuoio di Russia", prodotto al quale in altri tempi – non saprei dirvi se oggi sia ancora così – un tipico procedimento locale di concia mediante sostanze ricavate dalla corteccia di betulla conferiva il gradevole odore citato dai libri, evidentemente ben noto all’epoca. Il “cuoio odoroso” di Serville non può che farvi riferimento.

Come abbiamo anticipato, la deposizione delle uova, lo sviluppo delle larve e la trasformazione in adulti sia dell’Osmoderma sia di molti altri Cetonidi avvengono nel terriccio che riempie i cavi di vecchi alberi, originato dal legno morto in disfacimento; l’intero ciclo dura due o tre anni. Questi Scarabeoidei vivevano in origine nelle foreste di pianura e collina, in particolare in boschi di querce, nei quali è stato constatato che quello specialissimo tipo di microambiente si incontra in alberi di almeno due secoli di età; insieme con la riduzione delle aree boschive, l’abbattimento dei vecchi tronchi morti o malati e la loro eliminazione immediata rappresentano dunque un grave colpo inferto alle specie che ne dipendono.
Al riguardo afferma un organismo governativo svizzero (fonte in tedesco, LINK): “Circa un terzo della flora e della fauna del bosco – vale a dire più di 6.000 specie, fra cui oltre 1.200 Coleotteri ma anche numerosi altri insetti, chiocciole, uccelli, mammiferi, licheni e muschi e 2.500 specie di funghi superiori – utilizza il legno morto (alberi senescenti cavi, alberi morti in piedi e a terra) come habitat e fonte alimentare. La scarsità di soprasuolo vecchio e di legno morto minaccia la biodiversità e interferisce nei meccanismi di regolazione dell’ecosistema bosco”.

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Cetonischema aeruginosa, qui in due varietà di colorazione, è la più grande Cetonia italiana, potendo arrivare a 34 mm di lunghezza.  Tipica dei boschi di querce e poco comune o addirittura rara in gran parte del nostro paese, è però frequente in Venezia Giulia, dove ho rinvenuto i due esemplari della foto nei dintorni di Monfalcone (GO).

Nei secoli passati, però, man mano che per far posto alle coltivazioni le foreste venivano sacrificate, molti loro piccoli abitanti – tra cui i Cetonidi – trovarono il modo di sopravvivere rifugiandosi in ambienti per così dire di ripiego. Nella pianura padana, dal Piemonte al Veneto, fino a una trentina di anni fa l’acqua per l’irrigazione dei campi era distribuita capillarmente da una fitta rete di fossati che facevano capo a un sistema di rogge, a loro volta derivate da fiumi e torrenti (sistema davvero antico: al paese dei miei nonni, ai piedi delle Alpi Cozie, la roggia principale era stata fatta scavare dai feudatari del castello locale ai primi del ’300); e a consolidare le sponde di ogni minimo ruscello o canaletto venivano piantate interminabili file di alberi, in particolare salici ma anche pioppi, olmi, frassini, sui quali si praticava la tradizionale potatura detta a capitozza.

Questa tecnica, con cui si recide ad altezza d’uomo l’asse della pianta ancora giovane, favorisce lo sviluppo intorno al taglio di una corona di rami, mentre il tronco, che ingrossa rapidamente, spesso si caria all’attaccatura degli stessi; di lì in giù il legno morto che occupa la parte centrale del fusto, a opera di un gran numero di specie soprattutto di insetti che se ne nutrono e lo digeriscono, si trasforma in terriccio. Rispetto alla formazione dei cavi naturali nei grandi alberi dei boschi, questo processo è molto più frequente e più rapido, richiedendo “soltanto” qualche decina d’anni.

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Larva di Cetonide e ambiente del suo sviluppo, nel cavo di un vecchio salice. Disegno di Robert Blanc, da Iconographie Entomologique, planche 6, Coléoptères Cetonidae, Faune de France, serie di tavole edite da Maraval S. A., 1978.

Fu così che anch’io ritrovai l’Osmoderma in un pittoresco filare formato da qualche decina di enormi salici, probabilmente più che centenari e tutti superiormente cavi; arrivai appena in tempo a farvi ricerche per due estati consecutive, perché durante l’inverno dell’anno successivo alla mia scoperta gli alberi, forse giudicati ormai troppo vecchi, furono abbattuti dal primo all’ultimo. Di lì a non molto, del resto, col diffondersi della tecnica di irrigazione dei terreni mediante innaffiamento a pioggia, gli antichi paesaggi campestri presero a sparire con rapidità vertiginosa e in modo generalizzato. Rogge e fossati, che richiedevano una manutenzione indubbiamente laboriosa, vennero man mano interrati; e con la fittissima rete di canali e canaletti scomparvero anche gli interminabili cortei di salici e altri alberi che ne imbrigliavano le sponde, divenuti di intralcio ai moderni macchinari agricoli.

Credo che ora vi siano chiari i motivi della rarefazione dell’Osmoderma, a proposito dei quali non sarebbe fuori luogo aprire un discorso sulla scarsa efficacia del divieto di raccogliere un insetto quando non si è pensato prima di tutto a proteggerne l’ambiente. Ma rimandiamo la discussione ad altre occasioni, aggiungendo invece un interessante particolare sulla biologia dei Cetonidi: la larva matura, prima di addormentarsi per compiere la doppia metamorfosi che la trasformerà in pupa e poi in adulto, si costruisce un bozzolo di terriccio e detriti, nel quale isolarsi e ripararsi durante il lungo sonno. Al suo interno, l’Osmoderma addirittura compie la prima parte del processo (impupamento o ninfosi) alla fine della bella stagione, passa l’autunno e l’inverno allo stato di pupa e completa la trasformazione in adulto solo la primavera successiva, rimanendo poi inerte fino al momento di uscire all’aperto, all’inizio dell’estate.

CICLO CETONIA dis-

Così a 16 anni, nel 1963, disegnai in un minuscolo schizzo il ciclo vitale della Cetonia, dopo averne osservato per la prima volta la larva e il bozzolo.

Della Cetonischema aeruginosa, invece, almeno una parte delle larve si impupano solo a primavera inoltrata, come posso testimoniarvi grazie a un amico che ha scoperto un insospettato ambiente alternativo in cui questa meravigliosa specie si sviluppa: la compostiera del suo giardino. Io stesso vi ho osservato la presenza di numerose larve e ne ho ottenuto alcuni bozzoli, due dei quali illustrati nella foto seguente. Per inciso il nome del genere, Cetonischema, significa “di struttura simile a quella di una Cetonia”, mentre quello della specie, aeruginosa, vale “color ruggine”. A escogitarlo fu nel 1773 l’entomologo inglese Drury: probabilmente l’esemplare o gli esemplari da lui osservati, come l’individuo a sinistra nella foto di questo post, avevano la colorazione tendente al rossastro o dorato che seguito fu definita “aberrazione” aureocuprea, “d’oro e di rame”. Quanto ad aeruginosa, peccato che i nomi scientifici debbano seguire la regola detta della priorità, in base alla quale viene considerato valido il più antico: personalmente trovo assai più poetico il nome di Cetonia speciosissima, cioè bellissima, assegnatole dal nostro Scopoli nel 1786 (va tenuto presente come a quell’epoca, quando le comunicazioni erano assai più difficili di oggi, non raramente capitava che un naturalista rimanesse all’oscuro degli studi altrui e in buona fede assegnasse un nome a una specie in realtà già classificata, magari da un collega di un altro paese; la succitata regola della priorità fu creata proprio per ovviare a tale inconveniente)..

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Bozzoli di ninfosi della Cetonischema aeruginosa.
Da quello di destra l’insetto è uscito, mentre nell’altro, integro, è probabilmente morto durante o dopo la metamorfosi. Monfalcone (GO), giugno 2015. Cortesia dell’amico Piero Lipanje.

E quanto a bellezza vi presento un’altra rara Cetonia della fauna europea, nota in Italia solo per pochi vecchi reperti isolati in Toscana e Lazio e presente nel sud della Francia, per quel che ne so, esclusivamente in un grande e antico bosco di querce nel dipartimento dell’Ardèche, il Bois de Païolive: lunga fino a 3 cm, si chiama Eupotosia mirifica, cioè “che genera meraviglia” (quanto a Eupotosia, l’unica etimologia che ho trovato mi sembra poco affidabile e non sto a riferirvela). Il motivo per cui vi propongo la foto di uno dei due esemplari che ho in collezione è semplice: farla maggiormente conoscere. Se lo merita; chi non l’ha mai vista difficilmente immagina che un insetto così splendido faccia parte della fauna del nostro continente, anziché provenire da chissà quale lontana regione tropicale.

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Eupotosia mirifica. Bois de Païolive, Ardèche, Francia.
Collezione Giancarlo Colombo.

Qui stavo per terminare, con un collage di immagini nelle quali Roberto ha immortalato vari esemplari di Cetonia dorata. Dato però che la scrittura di queste righe mi aveva suscitato un interrogativo che non aveva trovato risposta in alcuno dei testi a mia disposizione, ieri ho voluto effettuare al riguardo una piccola indagine sperimentale e il risultato, secondo me davvero interessante, è l’aggiunta che vi propongo prima di lasciarvi alle ultime foto.

La domanda che mi sono posto non mi era nuova, ma per un motivo o per l’altro l’avevo sempre accantonata: in che modo le elitre delle Cetonie sono unite lungo la linea di sutura? La chiacchierata odierna mi è sembrata l’occasione giusta per cercare di scoprirlo; e a instradarmi verso la soluzione è stato ancora una volta Mario Sturani, l’illustre entomologo torinese che mi fu maestro e amico ai tempi della mia giovinezza (LINK e LINK) e al quale, come vi ho già raccontato, debbo tanta parte della mia passione.

Un suo fondamentale lavoro del 1962 sulla biologia dei Coleotteri del genere Carabus, predatori notturni che hanno smesso di volare per trasformarsi in agili corridori, oltre alla riduzione più o meno accentuata delle loro ali esamina anche la forma delle superfici di contatto tra le elitre, che in casi estremi sono saldate l’una all’altra, analogamente a quanto avviene nelle Cetonie. Tale modifica evolutiva è particolarmente accentuata in un gruppo di parenti prossimi dei Carabi, i Cychrus, ancora più specializzati dei cugini nell’utilissimo compito di cacciatori di chiocciole e lumache.

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Il grande Carabus coriaceus (può superare i 4 cm) e il raro Cychrus cylindricollis (16-22 mm),
scoperto nel 1871 sulla Grigna settentrionale
. Disegni di Giancarlo Colombo.

L’illustrazione che segue, proveniente dal suddetto studio, mostra la sezione trasversale della sutura delle elitre in diverse specie di Carabus (tra cui proprio il coriaceus, raffigurato qui sopra) e in un Cychrus. Come si vede, in c e d i bordi presentano sagome complementari, l’una convessa e l’altra concava, corrispondenti al tipo di incastro detto in falegnameria “a tenone e mortasa”, che impedisce del tutto la separazione dei due elementi (laddove il tenone è il ‘maschio’ e la mortasa è la ‘femmina’).Sturani 001

Connessione tra le elitre lungo la sutura in tre specie di Carabus (a-c) e in un Cychrus (d). Da Mario Sturani, Osservazioni e ricerche biologiche sul genere Carabus L., in Memorie della Società Entomologica Italiana, volume XLI, 1962, pag. 180.

Ricordando quell’analisi ho pensato di realizzare un’analoga sezione in Cetonia aurata, anche se tra i Coleotteri lo scarabeo delle rose è tanto lontano da un Cychrus quanto tra i Mammiferi una mucca è lontana da una tigre. L’esperienza si è rivelata assai istruttiva da diversi punti di vista, incominciando da un aspetto che proprio non avrei immaginato: l’impresa è tutt’altro che semplice. Se l’elitra non viene incisa a partire dal bordo, la lama affilatissima di un taglierino che passi e ripassi sulla sua superficie non la intacca minimamente!

Con un po’ di pazienza sono comunque riuscito nel mio intento; e il microscopio stereoscopico mi ha rivelato il bellissimo incastro inclinato a tenone e mortasa che raffiguro qui sotto, di forma diversa da quella dei Cychrus ma altrettanto pronunciata. Particolare curioso: mentre nei Carabidi, o perlomeno in tutti i casi illustrati da Sturani, la parte convessa della giuntura tra i due pezzi si è sviluppata sul sinistro e la concava sul destro, nella Cetonia è avvenuto esattamente il contrario. Se il nome tecnico dell’incastro non fosse codificato, volendo fare i pignoli sarebbe quindi più giusto definirlo “a mortasa e tenone”.

INCASTRO ELITRE CETONIA (Medium)

Sezione trasversale delle elitre di Cetonia aurata tra la metà e i 2/3 della lunghezza.
Particolare dell’incastro a tenone e mortasa.
Disegni di Giancarlo Colombo.

A parte questo dettaglio, mi ha sorpreso scoprire come un meccanismo sostanzialmente identico si sia evoluto in due gruppi così distanti, nei quali le motivazioni dell’adattamento in questione sono del tutto diverse. Se nelle Cetonie la modifica ha a che vedere con la tecnica di volo, nel caso dei Cychrus credo sia invece collegata alla necessità di immagazzinare aria umida sotto le elitre, che hanno assunto forma assai convessa; questi Carabidi infatti hanno bisogno di un tasso elevato e costante di umidità atmosferica, alle cui variazioni sono estremamente sensibili. Ma qui il discorso, oltre a complicarsi non poco, si allontana troppo dal nostro tema.

Ritorno dunque all’idea originaria di concludere con alcune belle foto della Cetonia aurata e ne approfitto per segnalare come nel nostro paese (eccetto che in Sardegna, dove è sostituita da una specie molto simile) ne esistano due sottospecie: la pisana, diffusa nell’Italia continentale e la sicula, endemica dell’isola, che in effetti presentano piccole ma significative differenze sia tra loro, sia rispetto alla forma tipica. Per inciso quest’ultima, non reperibile in Italia, ha – tra l’altro – le macchioline bianche delle elitre costantemente più grandi, come si può vedere nell’esemplare ad ali distese (seconda immagine del post), raccolto probabilmente in Francia.

Se la distinzione in sottospecie è giustificata, oltre al resto, anche dalla diversa distribuzione geografica, per altri versi il nostro Cetonide, variabilissimo di colorazione, ha ricevuto in passato tutta una serie di denominazioni superflue ora abbandonate, dato che si riferiscono a semplici forme individuali che si possono incontrare, saltuariamente e qua e là, nell’ambito del resto della popolazione: sono le già ricordate “aberrazioni”, categoria sistematica oggi considerata non più valida. Esemplari come quello della foto seguente, per esempio, a testa, torace e scutello violetti, venivano chiamati “aberrazione” lucidula.

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Cetonia aurata ssp. pisana “ab. lucidula”. Giugno 2015, Alpe Giumello, LC, m 1500.

Per fortuna, a differenza di altre specie della famiglia ricordate più sopra, la Cetonia dorata è ancora molto comune. Ma solo perché comune un animale dovrebbe cessare di essere bello o interessante?

Giancarlo Colombo

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Cetonia aurata ssp. pisana. Da varie località della provincia di Lecco.

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